Anonymous colpisce le istituzioni, altri hacker rubano i dati di milioni
di utenti di Uber. Notizie gravi e, ancora una volta, sottovalutate. Soprattutto
dagli interessati, che non si rendono conto dei pericoli reali delle violazioni
della privacy.
Nelle scorse settimane due notizie sono apparse, e subito scomparse, dalle
prime pagine: la prima è l'incursione di Anonymous nei siti dei Ministeri della
difesa e dell'interno e della Presidenza del consiglio, con il furto di dati
personali e di informazioni riservate; il secondo il data breach subito
l'anno scorso da Uber, con la cattura dei dati personali di 57 milioni di
utenti.
A parte le probabili inesattezze contenute nelle due notizie, colpisce il
basso livello dell'allarme generato soprattutto dall'azione di Anonymous, che
invece dovrebbe attirare l'attenzione dei media sugli aspetti sempre più
preoccupanti della "società vulnerabile" della quale parliamo,
inutilmente, da più di vent'anni.
Fa riflettere anche lo scarso interesse sollevato dal furto di dati subito
da Uber, che rivela la trascuratezza dell'azienda nella protezione dei dati dei
sui utenti, per di più non informati dei rischi che possono correre in seguito
alla diffusione dei dati rubati.
Ma l'utente di Uber – e dello smartphone attraverso il quale fruisce del
servizio – alza le spalle: «tanto non ho niente da nascondere». Per lo stesso
motivo non si preoccupa di proteggere le informazioni personali memorizzate
nell'apparecchio, né di disattivare la rilevazione e la trasmissione (non si sa
bene a quanti spioni) delle informazioni sulla sua posizione e sui suoi
spostamenti.
E, come se non bastasse, non si cura del fatto che il fornitore del servizio
(gratuito) di posta elettronica è "autorizzato" ad analizzare il
contenuto delle sue email, anche se è un medico che scambia informazioni
sensibili con i suoi pazienti o un avvocato che corrisponde con i suoi clienti
(vedi Ecco
le "autorizzazioni" di Kaspersky sui dispositivi Android e
Microsoft e WhatsApp: leggere bene le avvertenze).
Un punto essenziale sfugge ancora all'attenzione della maggioranza delle
persone che usano i sistemi di comunicazione elettronica: il problema della
protezione dei propri dati personali non è in relazione a quello che uno ha o
non ha da nascondere, ma dall'uso che gli spioni fanno dei dati. Dati che
vengono venduti e/o elaborati per la profilazione, che mette a nudo la persona e si serve
del suo profilo per fornirle informazioni parziali, reticenti, tendenziose, tali da
influenzare la sua libertà di scegliere.
Non importa se uno crede di non avere niente da nascondere. Il rischio è che
i suoi dati vengano usati a suo danno, non tanto per ricattarlo o prosciugare il
suo conto corrente, quanto per "costruire" un suo profilo virtuale,
che può rivelare anche aspetti particolari della sua personalità (magari
alterati o inventati, per qualche imperfezione dei sistemi di "Imbellicità
Artificiale" che elaborano i dati).
Ma sono in pochi a preoccuparsi di tutto questo. I problemi della privacy in relazione alla tanto osannata
"internet delle cose" sono sostanzialmente ignorati dai media. Che non
perdono l'occasione per sbandierare le meraviglie dell'ultimo televisore, frigorifero o tostapane
"smart", senza preoccuparsi di informare il
lettore-spettatore degli effetti collaterali dell'osannata innovazione.
Un chiaro esempio di questa indifferenza si è visto in un servizio della TGR
del Lazio del 20 novembre scorso, che ha dedicato un ampio servizio alla
vulnerabilità dei dispositivi "intelligenti" alle possibili intrusioni di
hacker (con tanto di presenza in studio del
generale in pensione Umberto Rapetto, noto guru della sicurezza
dell'internet). Ebbene, nel servizio e nel commento si è
parlato solo ed esclusivamente dei danni che possono essere causati dagli hacker.
Neanche una parola sui rischi per la privacy.
Con notevole senso dello spettacolo è stato fatto vedere come un
aspirapolvere-robot guarda e registra ogni dettaglio della casa che pulisce, ma
non è stato spiegato perché lo fa e, soprattutto, a chi manda i dati che
raccoglie.
Eppure qualcuno dovrebbe preoccuparsi del fatto che un fabbricante di
elettrodomestici disponga della pianta e di ogni dettaglio dell'arredamento di un
cliente e non si sa se e a chi rivende queste informazioni. Oltre a osservarlo e ascoltarlo
nella sua vita privata attraverso la telecamera e il microfono incorporati nel
meraviglioso televisore "intelligente".
Ora leggiamo il codice penale, articolo 615-bis – Interferenze illecite
nella vita privata: "Chiunque, mediante l'uso di strumenti di ripresa
visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita
privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614, è punito con la
reclusione da sei mesi a quattro anni".
Chiarito che i luoghi indicati nell'articolo 614 sono l'abitazione altrui, o
un altro luogo di privata dimora, o le appartenenze di essi, qualcuno dovrebbe
chiedersi se un'informazione ai sensi delle disposizioni sul trattamento dei
dati personali, confusa in un lungo testo di altre informazioni, sia sempre
sufficiente a escludere che un'intrusione di tale gravità sia
"indebita" ai sensi dell'articolo 615-bis.
O se, in ogni caso, non sia un aspetto di cui ogni acquirente debba essere
informato con grande evidenza, a cominciare dalla pubblicità degli apparecchi
"intelligenti".
|