I titoli dei giornali urlano. Il Fatto Quotidiano: «La privacy abolita per decreto!»; Agenda digitale: «Terremoto privacy nel decreto Capienze, PA senza freni: ecco gli
impatti»; Wired: «Privacy, decreto Capienze mette a rischio la protezione dei dati». E via così. Ma vogliamo piantarla
di urlare e incominciare a ragionare con cognizione di causa?
Il decreto-legge N. 139 dell'8 ottobre
2021 non cambia la normativa europea e i suoi principi (né potrebbe
farlo). Non "abolisce la privacy".
Il decreto modifica alcune norme nazionali, nel perimetro di
discrezionalità che il GDPR riconosce agli Stati membri. Sono norme di
dettaglio, contenute in quel che resta del cosiddetto "Codice
privacy", ovvero il decreto legislativo 196/2003, che così subisce
l'ennesimo rattoppo. Quindi nulla cambia,
nulla viene "abolito" nel sistema di protezione dei dati personali (e
non "della privacy") definito a livello europeo.
Ma perché il Governo ha ritenuto necessario limitare, in parte, il potere di
intervento del Garante per la protezione dei dati personali in alcune attività
normative istituzionali?
Nel corso della lunga pandemia da Covid-19 il Garante è intervenuto diverse
volte per impedire trattamenti che avrebbero reso più efficace l'azione di
contrasto alla diffusione del contagio. Un esempio: l'efficacia della sciagurata
app "Immuni" era minata all'origine dall'imposizione di un anonimato
totale, che rendeva impossibile alle autorità sanitarie compiere interventi
mirati sulle persone a rischio di contagio (vedi Il fallimento di Immuni e il vero "rischio privacy").
Un altro esempio, più recente, è il divieto di registrare la scadenza del green
pass da parte di chi è legittimato a controllarlo (vedi Il GDPR
è un ostacolo nella lotta alla pandemia?), che rende inutilmente
farraginoso il controllo degli ingressi nelle aziende, nelle scuole e in tutte
le strutture collettive.
A tutto questo si aggiunge la crescente insofferenza per il continuo
ripetersi del ritornello "non si può fare perché c'è la privacy"
nel quale ciascuno inciampa ogni giorno nelle più diverse attività (vedi Il GDPR, i Garanti e La corazzata Kotiomkin).
I dati sanitari, recita l'art. 9
del GDPR, sono dati "particolari" e il loro trattamento è vietato
in linea di principio, con una serie di eccezioni. Una di queste si applica
quando "il trattamento è necessario per finalità di medicina
preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del
dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione
dei sistemi e servizi sanitari o sociali" (paragrafo 2, lettera h).
Un'altra eccezione al divieto di trattamento si applica quando "il
trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della
sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere
transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza
dell'assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici"
(paragrafo 2, lettera i).
La ratio di queste disposizioni è inattaccabile: il diritto del
singolo alla riservatezza dei propri dati sanitari deve cedere di fronte
all'interesse collettivo della tutela della salute pubblica.
Ma il Garante trascura questi dettagli ed esercita il suo potere con
un'interpretazione inspiegabilmente parziale del GDPR, che fa prevalere
l'interesse individuale su quello collettivo. Da qui l'intervento governativo.
Contenuto, si noti, non nell'ennesimo DPCM, ma in un decreto-legge, così da
soddisfare la condizione (giustamente) imposta dal GDPR di una norma di rango
legislativo come "base giuridica" per determinati trattamenti.
Resta comunque il vaglio del Parlamento, che potrà modificare o addirittura
cancellare queste disposizioni nella conversione in legge del decreto.
E resta il problema di fondo di tutto il sistema di "protezione dei
dati". Chi limita la libertà delle persone con l'uso – e l'abuso – delle
informazioni personali non sono le
istituzioni democratiche o le pubbliche amministrazioni, per quanto pasticcione
e mal guidate dalla politica. Sono i predatori delle informazioni personali, le
Big Tech, le reti sociali (che sarebbe più corretto chiamare
"asociali" perché minano la convivenza nella società).
C'è un difetto di fondo nella normativa europea. Il funzionamento del GDPR – e prima ancora
della
direttiva del 1995 – ha come "motore" il trattamento dei dati più che
i diritti delle persone. E di conseguenza non distingue in forma abbastanza chiara tra l'uso
dei dati nell'interesse dei cittadini e l'uso (e l'abuso) dei dati
nell'interesse di chi li raccoglie e li sfrutta a fini commerciali o politici. Ora si può discutere se le misure introdotte
dall'articolo 9 siano o no necessarie o opportune. Da una parte limitano
oggettivamente il campo di intervento del Garante – e questo può aprire il
campo a iniziative inutilmente limitative delle libertà costituzionali –
dall'altra restituiscono al legislatore l'autonomia che la Costituzione gli
attribuisce, anche nei confronti di "autorità indipendenti" la cui
natura costituzionale non è ancora stata chiarita con argomenti convincenti.
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