La multa miliardaria inflitta a Google per pratiche anticoncorrenziali ha messo
in secondo piano un altro problema serio: la massa di dati personali che gli Over The Top trattano
con metodi che appaiono in contrasto con le norme europee.
La notizia è che il Parlamento
europeo ha chiesto alla Commissione di sospendere il "Privacy Shield",
l'accordo che dovrebbe proteggere i dati personali dei cittadini europei, dati
che sarebbero trattati negli USA in violazione delle disposizioni del GDPR.
E' una presa d'atto di estrema gravità, che ripete nella sostanza le ragioni
dell'annullamento del "Safe Harbor", decretato
nel 2015 dalla Corte di giustizia. In parole povere: le aziende USA fanno quello
che vogliono dei dati personali dei cittadini europei, nell'inerzia delle
autorità locali che dovrebbero sorvegliare che i trattamenti non avvengano in
violazione delle norme UE.
Il punto è che i trattamenti operati dai grandi "padroni dei dati"
americani sono caratterizzati da un'invasività che non era neanche immaginabile
fino a pochi anni fa. La vera questione sul tappeto si chiama "Big
Data", materia prima della profilazione che ha lo scopo di influenzare le decisioni
delle persone in ogni campo, dalla vita privata, agli acquisti, alle scelte
politiche.
Lo scandalo dei trattamenti su vasta scala compiuti da Cambridge Analytica con
i dati di Facebook, usati per influenzare le scelte elettorali dei cittadini
(non solo) americani, ha portato il problema a conoscenza dell'opinione
pubblica, che sta incominciando a chiedersi se il baratto tra uso della Rete e
dati personali sia conveniente come sembra.
Si pongono questi problemi anche le "autorità competenti", quelle in prima linea nella difesa dei diritti dei cittadini: in Italia il Garante della protezione dei dati personali, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e l'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (che da più di un anno conducono un'indagine congiunta sui Big
Data).
I tre presidenti hanno affrontato il problema nelle relazioni che hanno presentato al Parlamento nelle scorse
settimane. Ha "aperto il fuoco", il 10 luglio, il presidente del
Garante per la protezione dei dati personali Antonello Soro, che nella sua relazione ha detto:
«Per molto tempo i governi, in ogni angolo del pianeta, hanno sottostimato
gli effetti e i rischi di un regime privo di regolamentazione, nel quale i
grandi gestori delle piattaforme del web hanno scritto le regole, promuovendo un
processo inarrestabile di acquisizioni e concentrazioni, dando vita all’attuale
sistema di oligopoli. Questi hanno acquisito il potere di orientare i
comportamenti di diversi miliardi di persone: non solo nei consumi ma anche
nella più generale visione sociale e culturale».
Gli ha fatto eco, l'11 luglio, il presidente dell'Autorità per le garanzie
nelle comunicazioni Angelo Marcello Cardani. Nella sua relazione si
legge:
«Sempre più ambiti economici e sociali sono governati da algoritmi. Parole,
interazioni sociali, spostamenti, localizzazione geografica, gusti,
orientamenti. Ma non basta. Sempre di più, tutti gli oggetti che ci circondano
funzioneranno sulla base di algoritmi, grazie alle applicazioni 5G ed all’Internet
delle cose (c.d. IoT ). L’impiego così massiccio di algoritmi e di
automazione si fonda sull’uso dei Big Data e del machine learning. Viviamo
già oggi, e sempre più vivremo in futuro, una epoca di “trasformazione in
dati”: già oggi possiamo affermare che Facebook ha “trasformato in dati”
le relazioni sociali; LinkedIn quelle lavorative; Twitter le opinioni e gli
orientamenti; Amazon le propensioni al consumo, i gusti, le capacità di spesa;
Google, ragionevolmente, tutto questo, tutto insieme».
Il giorno dopo, 12 luglio, la relazione di
Giovanni Pitruzzella, presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
ha rincarato la dose:
«Esiste la grande questione dei Big Data come fonte di potere di mercato
delle imprese hi-tech, che possono utilizzare questa nuova risorsa per chiudere
i mercati e bloccare l’innovazione che proviene da nuovi attori».
Pitruzzella ha poi citato due casi in cui l'AGCM è intervenuta contro pratiche
scorrette. «L’Autorità ha contestato a WhatsApp di condizionare la scelta
dell’utente, facendogli credere di dovere accettare le nuove condizioni (e
cioè, la cessione dei propri dati) al fine di continuare a godere del servizio
aggiornando le modalità di fruizione. È stato affermato il principio secondo
cui un servizio, pur apparentemente gratuito, che però comporta la cessione di
dati personali poi utilizzati a fini commerciali, implica l’esistenza di una
controprestazione – la cessione dei dati – e pertanto costituisce un vero e
proprio rapporto contrattuale soggetto alla disciplina di tutela del consumatore
nei confronti delle pratiche commerciali scorrette».
Ancora Pitruzzella: «Più di recente, l’Autorità ha aperto un procedimento, non
ancora concluso, nei confronti di Facebook, avente a oggetto due possibili
pratiche commerciali scorrette: una per la carenza informativa, al momento della
registrazione, circa l’uso dei dati personali degli utenti; l’altra per la
modalità aggressiva con la quale l’operatore imposta la piattaforma,
prevedendo in automatico la cessione e la condivisione dei dati con soggetti
terzi, concedendo solo successivamente all’utente la possibilità di negare l’autorizzazione».
Quelle che per il presidente dell'Antitrust sono pratiche commerciali
scorrette, per il Garante dei dati dovrebbero essere pesanti violazioni della
normativa europea, il GDPR. Su questo punto dovremmo aspettarci
le novità più significative.
Perché è facile constatare che le "sei sorelle" (o quante sono) dei Big Data offrono informative
lunghissime e complicate, che si autoproclamano compliant con il GDPR,
per ottenere (estorcere?) il consenso sul trattamento dei dati personali. Ma è
lecito domandarsi quanto possa essere "informato" il consenso sulla base di un'informativa che nessuna persona normale riesce a leggere per
intero. I termini del "baratto" non sono chiari e le informazioni
sulla sorte finale dei nostri dati mancano del tutto.
E poi, un'informativa di tal fatta si può considerare "in forma concisa,
trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, con un linguaggio semplice
e chiaro", come impone l'articolo 12 del GDPR?
E' solo una delle tante domande che sorgono dalla lettura delle informative
degli Over The Top. Informative che non informano, anche se a prima vista sembra
che informino troppo.
Ne riparleremo a settembre.
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