Tutti a casa, anche a lavorare. Ed ecco che tra le misure di contenimento per
evitare la propagazione del virus, ci siamo ritrovati in camere da letto
adattate a uffici, a smanettare su ogni tipo di apparecchio, utilizzando
qualsiasi applicazione che fino a qualche giorno fa ci serviva soltanto per
scherzare con gli amici.
Una virtuosa accelerazione verso il lavoro del futuro? Il definitivo,
improvviso salto quantico di una società intera? La realtà è che c’è poco
da festeggiare. Perché accanto al tema evidenziato nell’articolo di Andrea Gelpi (l’ipertrofia regolatoria di
datori di lavoro particolarmente strutturati) ce n’è un altro ancora più
grave, che sta già determinando danni incalcolabili.
Facciamo un passo indietro.
Il lavoro agile (cosiddetto smart working) è stato introdotto nel nostro
ordinamento da ormai tre anni, attraverso il cosiddetto Jobs Act del
lavoro autonomo: gli artt. 18 e seguenti della L. 81/17 regolano questa forma di adempimento della
prestazione lavorativa, al dichiarato fine di "di incrementare la
competitivita' e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro".
La dinamica è semplice: il lavoratore, senza esser tenuto al rispetto di un
orario, può lavorare in qualsiasi luogo (non solo a casa sua, come nella
vecchia disciplina del diverso istituto del telelavoro), purché vengano
rispettate una serie di regole declinate in quello che il comma 1 dell’art. 18
poneva, e pone, come il sole intorno al quale ruota la fattispecie: un accordo
scritto tra datore di lavoro e lavoratore, nel quale siano espressamente
declinati una serie gli elementi cardine della "agilità", con
specifico riguardo:
- agli strumenti tecnologici da utilizzare (la cui sicurezza e buon
funzionamento devono esser garantiti dall’impresa, se dalla stessa
forniti);
- alle modalità organizzative di coordinamento tra datore di lavoro e
prestatore, "anche con riguardo alle forme di esercizio del potere
direttivo del datore di lavoro" (art. 19);
- ai tempi di riposo del lavoratore, ed alle modalità tecniche ed
organizzative di riconoscimento del cosiddetto diritto alla disconnessione,
che metta il lavoratore agile in condizione di "sganciarsi" dalle
strumentazioni tecnologiche di lavoro;
- all’adempimento dell’obbligo descritto dall’art. 22 della L. 81/17,
che in materia di sicurezza sul lavoro impone al datore di lavoro di "consegnare
al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con
cadenza almeno annuale, un'informativa scritta nella quale sono individuati
i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalita'
di esecuzione del rapporto di lavoro"
Sullo sfondo, ogni datore di lavoro non poteva (e non può!)
non misurarsi con la necessaria adozione di misure adeguate ed efficaci intese a
non esporre a rischi l’accesso in remoto ai server aziendali e la trasmissione
dei dati (non solo personali) riservati.
Sono tutti elementi di fondamentale importanza, ognuno dei quali gravido di
problemi che hanno tenuto molto impegnato chi (e sono tantissimi) ha iniziato da
tempo ad utilizzare questo strumento. Qualche esempio: il lavoratore può
utilizzare strumentazioni proprie (è una prassi molto in voga in ambiti
internazionali, denominata Bring Your Own Device – BYOD) ? A quali condizioni
? Il datore di lavoro può controllare le attività che vengono svolte a
distanza? Con quali strumenti ? Sono legittimi, gli stessi, ai fini del rispetto
delle prescrizioni contenute nell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori sui
controlli a distanza? Come gestire canali di comunicazione sicura con chi opera
in remoto, magari utilizzando una connessione di rete domestica ?
Ecco: già soltanto per affrontare e risolvere questi problemi, c’era (e c’è!)
tantissimo da riflettere in sede di redazione dell’accordo scritto. E fino a
qualche settimana fa, era semplicemente impensabile ricorrere al lavoro agile
senza aver ponderato ogni clausola dell’accordo ed ogni aspetto allo stesso
sotteso.
Cosa è accaduto a causa del maledetto virus ? Come mai è stato possibile
ritrovarsi nella citata camera da letto, sulla base (spesso) di una
comunicazione aziendale vuota di contenuti ?
La risposta sta nella sequela di decreti anti-virus (chiamiamoli così), che
si sono susseguiti in questi giorni: con una disposizione di identico tenore,
inizialmente prevista per la sola zona rossa individuata nel nord Italia e per
un arco temporale di qualche settimana (art. 2 DPCM 25.02.20), poi rifluita in
varie altre disposizioni e da ultimo consacrata per tutto il paese, e per tutto
il tempo della emergenza (ad oggi fino al 31.07.20 - vedi la Dichiarazione dello
stato di emegenza del 31.01.2020):
"la modalita' di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23
della legge 22 maggio 2017, n. 81, puo' essere applicata, per la durata dello
stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri 31
gennaio 2020, dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel
rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza
degli accordi individuali ivi previsti; gli obblighi di informativa di cui
all'art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica
anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell'Istituto
nazionale assicurazione infortuni sul lavoro" (art. 2 comma 1 lett. r)
del DPCM 08.03.20)
Due i cardini di questa disposizione:
1. la semplificazione imposta dall’emergenza e coerente con la ratio del
"tutti a casa", ha permesso e permette di saltare a piè pari l’accordo
individuale;
2. il datore di lavoro, ai diversi fini di cui alla disciplina sulla
sicurezza del lavoro, è sollevato dall’onere di dare una informativa scritta,
e può adempiere a quest’obbligo anche con una semplice e-mail, utilizzando un
format che l’INAIL ha messo a disposizione sul proprio portale. Un documento
multiforme, che ha ovviamente tutti i limiti connessi alla generalizzazione, e
che comunque tocca soltanto tangenzialmente i problemi sopra elencati.
Ora, lasciati da parte i grandi player di mercato (banche,
assicurazioni etc.etc.), che stanno incappando in problemi di diversa natura ben
richiamati nell’articolo di Andrea Gelpi, vi è da chiedersi, laicamente: in
che modo le medie e piccole organizzazioni, gli studi professionali, insomma la
spina dorsale produttiva di un Paese composto da micro-organizzazioni, sta
gestendo questo passaggio massivo al lavoro agile facendolo diventare
improvvisamente realtà ?
Semplice: una mail, nella quale si comunica ai dipendenti che da domani
lavoreranno da casa, alla quale nella migliore delle ipotesi è allegata la
informativa di cui al format INAIL.
In altri termini: niente accordo = niente regole!
Nulla di più pericoloso: tutte le problematiche sopra citate rimangono
inevase; nessuno sa bene cosa può fare e cosa no, con quali strumenti, a quali
condizioni.
Sa solo che si deve chiudere in camera, e lavorare "agilmente": e se
questo significa utilizzare in modo acefalo applicativi per le videochiamate di
gruppo, o accedere ai server aziendali da qualsiasi dispositivo, tutto sommato
poco importa.
Con rischi inenarrabili per la sicurezza delle informazioni; per la
trasparenza dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori; per la conservazione
del posto di lavoro, se prima o poi non intervenga, come è fatale che sia, un
incidente dovuto alla ignoranza o a condotte poco avvedute ad aprire gli occhi
di tutti.
Eccolo, allora, un pericolo spaventoso, tra i vari che caratterizzano questo
momento così complicato. E una potenziale fonte di contenziosi che se oggi
sembrano (forse giustamente?) la cosa meno importante del mondo, rischiano di
occupare le aule dei Tribunali per i prossimi decenni.
Esiste la soluzione ? Certo che esiste.
Non fare accordi individuali non significa non prevedere delle regole. E
nascondersi dietro la informativa INAIL che nulla prevede ai nostri fini, è un’operazione
inutile e dannosa.
Ogni datore di lavoro che sta ricorrendo allo smart working, deve porsi il
problema: e può cercare riparo in un panel di disposizioni anche solo minimale,
che per i meno creativi può trovare ispirazione, ad esempio, nel vademecum dettato dall’Agenzia per l’Italia Digitale
(che, seppure riferito al solo lavoro pubblico, può costituire un primissimo
punto di riferimento per tutti) .
Ma una cosa è certa: qualcosa bisogna farla. Altrimenti agile, rischia di
diventare sinonimo di PERICOLOSO !
Post Scriptum: con l’ultimissimo decreto legge n. 19 pubblicato il
25.03.20, è stato come noto ridisegnato il sistema di adozione delle misure di
contenimento: l’art. 1 individua le materie nell’ambito delle quali il
Governo potrà continuare ad emanare DPCM, fatto salvo però un passaggio
parlamentare (seppure a posteriori) che prima non era contemplato. Fra
queste materie, con una disposizione molto molto larga, è previsto che il
Governo possa intervenire anche per la " predisposizione di modalita' di
lavoro agile, anche in deroga alla disciplina vigente" (art. 1 comma
1 lett. ff). Se dunque ad oggi restano ferme le disposizioni adottate in
precedenza, sopra commentate (lo prevede espressamente l’art. art. 2 comma 3
del d.l. 19/20), dall’altro vi sarà da verificare se e come il Governo
riterrà di intervenire nuovamente sul lavoro agile, nell’esercizio di
prerogative che, vista la formulazione della norma, lasciano ampissimi margini
di manovra.
* Avvocato in Roma
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