Quando lo Stato vigila troppo
di Manlio Cammarata - 26.01.01
Novantacinque milioni di "schede",
secondo notizie di stampa, costituiscono il patrimonio informativo dei
Carabinieri sugli italiani. Se consideriamo che la popolazione residente non
raggiunge i 58 milioni - compresi gli infanti - e che gli esercenti attività
economiche sono circa cinque milioni è mezzo, è evidente che c'è qualche
scheda di troppo.
Viene da chiedersi a quanto ammonti il totale dei fascicoli, cartacei o
digitali, che lo Stato conserva su ciascuno di noi. E' facile immaginare che
anche la Polizia abbia i suoi archivi; aggiungiamo la Guardia di finanza, che ha
accesso alle basi di dati del fisco e a tutti i pubblici registri che abbiano
qualche rilevanza economica. Poi ci sono i comuni, le strutture sanitarie, le
camere di commercio... e soprattutto il cosiddetto "cervellone" del
Ministero dell'interno, il CED del Dipartimento della pubblica sicurezza, che
dovrebbe raccogliere le informazioni rilevanti per le finalità di tutela
dell'ordine, della sicurezza pubblica e della prevenzione e repressione della
criminalità.
Tutto regolare? Il Garante per la protezione dei
dati personali dice "sì, ma...". Il "sì" è dovuto al
fatto che "Dai diversi accertamenti effettuati non sono emersi trattamenti
sostanzialmente difformi dalla normativa vigente"; il "ma"
riguarda "alcuni problemi che derivano da un quadro normativo che non è
stato ancora adeguato del tutto ai principi introdotti dalla legge sulla
riservatezza dei dati".
Così recita il comunicato stampa. Il testo del provvedimento non è ancora
stato reso pubblico e quindi non possiamo sapere se veramente i trattamenti
presi in considerazione sono legittimi perché effettuati da soggetti
pubblici per finalità di difesa o di sicurezza dello Stato o di prevenzione,
accertamento o repressione dei reati, in base ad espresse disposizioni di legge
che prevedano specificamente il trattamento (legge
675/96, art. 4, comma 2, lett. e). Oppure se il "non sostanzialmente
difformi" del comunicato si riferisce a qualche... ardimento interpretativo
della Benemerita.
In ogni caso ha ragione il Garante nel sostenere
che le norme vigenti non sono compatibili con la legge sulla tutela dei dati
personali e che vanno riscritte. Sarà necessaria un'apposita legge, perché il
già citato art. 4 della 675/96 richiede "espresse disposizioni di
legge" per la liceità di questi trattamenti.
Ma, anche se l'art. 31, comma 2, della
legge sulla tutela dei dati personali impone solo al Presidente del Consiglio e
ai ministri di consultare il Garante quando predispongono norme regolamentari e
atti amministrativi suscettibili di incidere sulla materia, il professor Rodotà
dovrà far sentire la sua voce durante il dibattito sulle nuove disposizioni in
materia di sicurezza e prevenzione e repressione dei reati: sono troppe le
disposizioni legislative e regolamentari che consentono alle forze dell'ordine
di mettere il naso negli affari privati dei cittadini. Si veda, per esempio, l'art.
17 del DPR 318/97, che al comma 3 prescrive: Ogni organismo di
telecomunicazione deve rendere disponibili, anche telematicamente, al centro
elaborazione dati del Ministero dell'Interno gli elenchi di tutti i propri
abbonati e di tutti gli acquirenti del traffico prepagato della telefonia mobile.
I fascicoli di carta a carico dei cittadini si
moltiplicano, a causa della difficoltà di correlare le informazioni. Ma con la
tecnologia digitale i dossier possono essere "virtuali",
cioè "non esistere", sfuggendo a qualsiasi controllo, e diventare
"reali" solo nel momento in cui vengono correlate singole informazioni
legittimamente presenti su archivi diversi.
Questo richiama un altra questione che abbiamo affrontato di recente: il
"sistema di sicurezza del circuito di emissione delle carte
d'identità elettroniche", sempre nelle mani del Ministero dell'interno,
che non offre sufficienti garanzie di riservatezza dei dati che vi sono
contenuti (vedi Se il controllore controlla se stesso e Sulla
Rete siamo tutti criminali?).
Dunque non basta dire che non ci sono
"trattamenti sostanzialmente difformi" da quanto prevede la normativa,
perché la normativa stessa è insufficiente o contraddittoria. Che dire, per
esempio, della famigerata (per altri motivi) norma contenuta nell'art.
5 della delibera 476/00 dell'AGCOM, che obbliga gli "internet cafè"
a consentire l'identificazione certa degli utenti che fanno uso di detti
terminali per l'invio di posta elettronica? Si impone a questi soggetti, con
un atto amministrativo, un trattamento di dati personali a fini di sicurezza
pubblica?
Si torna così, fatalmente, a un vecchio
discorso: la legge 675/96, ridondante di procedure e formalità, si rivela
insufficiente proprio nella sostanza, e proprio per i trattamenti più
pericolosi per la libertà dei cittadini. |