Sulla Rete siamo tutti criminali?
di Manlio Cammarata - 15.01.01
Che cos'è la CIE, la carta d'identità
elettronica, che il Governo sta cercando di lanciare in questi mesi? Secondo la
televisione e i giornali e si tratta di una meravigliosa invenzione, grazie alla
quale i cittadini non dovranno fare più file davanti agli sportelli degli
uffici o presentare certificati, ma potranno scambiare via internet tutte le
comunicazioni con la pubblica amministrazione. Potrà servire anche come tessera
sanitaria, per pagare gli autobus o i parcheggi, e via elencando in un delirio
tecnoentusiastico che è l'altra faccia del delirio tecnofobico nelle notizie
sulla criminalità informatica, le pedofilia e altri aspetti negativi della
Rete.
Si tratta di quella "informazione frettolosa e semplificatoria", che
Eugenio Scalfari attribuisce all'internet, e che invece si rivela sempre più
una qualità tipica della stampa tradizionale.
Un esempio è l'articolo che Affari&Finanza
ha dedicato alla CIE lo scorso 8 gennaio. Articolo, fra parentesi, scritto da
chi non ha alcuna conoscenza della materia, come si può capire da questo
passaggio: "Essa (la CIE, ndr) custodirà anche la firma digitale a
chiave crittografata asincrona, (divisa in due metà: "pubblica" e
"privata", con validità giuridica, ormai molto diffusa, utile per
siglare dichiarazioni, partecipare a gare pubbliche, espletare provvedimenti
amministrativi o atti formali via web".
Come sanno i nostri lettori, la realtà è questa: la CIE potrà contenere anche
i dati e le applicazioni per la firma digitale, che è basata sulla crittografia
a chiavi asimmetriche, cioè su due chiavi, una pubblica e una
segreta. Con la firma digitale si possono generare documenti informatici validi
e rilevanti a tutti gli effetti di legge, utili anche per transazioni
telematiche. Soprattutto, la firma digitale non è "ormai molto
diffusa", anzi, non è ancora operante per il ritardo nella pubblicazione
del registro telematico dei certificatori, previsto dalla normativa.
L'inutile "banda ottica"
Chiusa la parentesi, veniamo alla sostanza. Si
apprende dall'articolo citato (e da tutta l'informazione diffusa in occasione
del "lancio" della CIE) che "un cittadino italiano che si
sentisse male mentre si trova all'estero sarà in grado di fornire al medico
locale la propria cartella clinica, tradotto in lingue diverse, memorizzata
nella carta ed eventualmente aggiornabile a distanza".
E' falso, per due motivi.
Il primo è che il terzo comma dell'art. 3 del
DPCM 22 ottobre 1999, n. 437, prevede che nella carta possano essere
contenuti "anche dati amministrativi del Servizio sanitario
nazionale", il che esclude la possibilità di inserire i dati sanitari veri
e propri. Ma, anche se una nuova norma consentisse di registrare informazioni
specifiche, sarebbe un'operazione praticamente inutile.
Il secondo motivo è che la cartella sanitaria
dovrebbe essere memorizzata sulla banda ottica della CIE, (carta
"ibrida", cioè provvista sia del microprocessore e della memoria
comuni a tutte le smart card, sia di una striscia a scrittura/lettura laser, una
specie di CD rettangolare). Il fatto è che il microprocessore segue uno
standard già diffusissimo (le SIM dei telefonini sono un solo esempio), mentre
la banda ottica è uno standard "teorico", perché fondato sul
brevetto di una una piccola azienda americana e adottato fino a oggi al di fuori
degli USA solo per qualche applicazione sperimentale.
Per questo la banda ottica potrà essere usata solo dalla pubblica
amministrazione italiana, i cui uffici dovranno dotarsi di un'apparecchiatura
oggi inesistente sul mercato, capace sia di leggere e scrivere il supporto
ottico, sia di confrontare le informazioni contenute nello stesso supporto con
quelle contenute nel microprocessore. All'estero la banda ottica non servirà a
nulla.
E' stato scritto anche che la banda ottica è
stata adottata perché consente di memorizzare una maggiore quantità di dati
(in teoria fino a 1.8 MB). Ma questa capacità è superflua, perché non occorre
che i dati siano memorizzati sulla carta, in particolare quelli sanitari. Lo
dimostra l'esperienza della Repubblica di San Marino, che risale all'ormai
lontano 1994: la carta è usata per accedere all'archivio delle cartelle
cliniche, con tutte le misure di sicurezza del caso (vedi San
Marino, la repubblica cablata)
Oggi, con la diffusione dell'internet e delle smart card standard in tutti gli
angoli del mondo industrializzato, portarsi in tasca la cartella clinica su un
supporto che quasi nessuno è in grado di leggere è un controsenso: basta
portare con sé la "chiave" per accedere alle informazioni, di
qualsiasi genere, dovunque si trovino.
Un altro aspetto sul quale l'informazione ha
fatto un gran chiasso, è quello relativo alla registrazione sulla CIE
dell'impronta digitale o dell'impronta dell'iride dell'occhio. Senza capire,
però, che l'una e l'altra avverrebbero come informazioni digitali e non come
immagini, ma soprattutto senza citare il fatto che la cattura del disegno
dell'iride richiede apparecchiature complesse e costose, tali da rendere di
fatto impraticabile su larga scala questo tipo di riconoscimento biometrico.
Inoltre va notato che la previsione dell'art.
4 "gli elementi necessari per generare la chiave biometrica" è
tecnicamente priva di senso.
La schedatura totale dei cittadini
Così arriviamo al punto più critico di tutto il
sistema della carta d'identità elettronica, quello dell'archiviazione di una
quantità enorme di dati personali su tutti i cittadini, fin dal primo giorno di
vita. Infatti il secondo comma dell'art. 2
del DPCM 437/99 dice che "Il documento d'identità elettronico è
rilasciato a seguito della prima iscrizione anagrafica", che per i
cittadini italiani avviene alla nascita.
Da quel momento l'archivio delle carte di identità tiene traccia di tutta la
vita del cittadino e degli accessi autorizzati ai suoi dati, il che consente di
generare una sorta di "biografia" dal punto di vista anagrafico. Ma
non basta. Come tutti sappiamo, le forze dell'ordine raccolgono altre
informazioni: per esempio, ogni volta che un automobilista viene fermato nel
corso di una normale operazione sul territorio, i dati sono registrati, così
come ad ogni sosta in un albergo. Nel prossimo futuro questi dati saranno
controllati proprio con un accesso all'archivio delle carte d'identità e sarà
quindi facilissimo correlare le diverse informazioni e tracciare
"profili" di ogni genere.
Ma, chiederà qualcuno, non c'è la legge 675/96
sulla tutela dei dati personali? La legge c'è, ma...
Art. 4
- Particolari trattamenti in ambito pubblico
1. La presente legge non si applica al trattamento di dati personali effettuato:
...
e) da altri soggetti pubblici per finalità di difesa o di sicurezza dello Stato
o di prevenzione,
accertamento o repressione dei reati, in base ad espresse disposizioni di legge
che prevedano
specificamente il trattamento.
Dunque non possiamo sapere chi custodisce questi
dati, chi vi ha accesso, per quanto tempo vengono conservati eccetera eccetera.
E' vero che ci sono norme che dettano le misure di sicurezza che devono
proteggere questi archivi e le operazioni di accesso ai dati. Ma non c'è
nessuno che possa realmente controllare, dal punto di vista tecnico, l'effettivo
rispetto di queste misure e l'assenza di backdoor o altri sotterfugi che
rendano vane le protezioni.
Anzi, così come è disegnato il circuito della carta d'identità elettronica,
sembra fatto apposta per consentire alle forze di polizia di accedere a
qualsiasi informazione. Il primo possibile "trucco" è nella
generazione "in proprio" delle chiavi asimmetriche che abilitano le
operazioni di lettura e scrittura da parte dei comuni, delle questure e delle
forze dell'ordine sul territorio (vedi Se il controllore
controlla se stesso).
Allo stato della tecnica, c'è un solo sistema
per offrire qualche garanzia di protezione contro operazioni illecite su basi di
dati: l'adozione di standard internazionali di sicurezza, come i criteri ITSEC (Information
Technology Security Evaluation Criteria), controllati da terze parti fidate.
Ma nelle disposizioni sugli archivi a disposizione delle forze dell'ordine
questi controlli non sono previsti, quindi è giustificato qualsiasi sospetto su
quali dati sono raccolti e custoditi e su chi vi ha accesso.
L'obiezione che viene spesso sollevata di fronte
a queste affermazioni è che il cittadino onesto non può subire alcun danno dai
trattamenti di dati personali effettuati a fini di pubblica sicurezza, anzi, il
vantaggio di una più efficace lotta alla criminalità compensa qualche
sacrificio della riservatezza.
Il problema è un altro: l'esistenza di questi dati e la loro disponibilità a
tempo indeterminato comportano il rischio che, in una situazione diversa da
quella di oggi, qualcuno ne possa fare un uso "improprio", per esempio
per selezioni o discriminazioni sulla base della provenienza geografica, delle
idee politiche o religiose o di altri elementi.
Anche in paesi di antica e sicura tradizione
democratica, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, è in atto una tendenza
sempre più forte al controllo di tutte le attività telematiche dei cittadini,
sempre con il pretesto della lotta alla criminalità. Si arriva a prevedere che
le forze dell'ordine possano intercettare e leggere qualsiasi messaggio e-mail,
anche senza l'autorizzazione specifica della magistratura.
Circolano con crescente insistenza le voci sull'esistenza di backdoor nei
sistemi operativi e negli applicativi più diffusi, capaci di assicurare alle
agenzie di sicurezza statunitensi la cattura di informazioni di ogni tipo in
qualsiasi angolo del mondo (vedi La "sindrome del
pesce rosso" non è una malattia).
Tutto questo porta inevitabilmente alla
trasformazione della società dell'informazione in società del controllo da
parte dei diversi Stati. Gli archivi di massa, come quello previsto dal
sistema italiano della carta d'identità elettronica, possono costituire una
sorta di casellario di riferimento per ordinare le informazioni raccolte con
altri sistemi (per esempio le intercettazioni telematiche).
Senza confini, senza garanzie, senza alcuna possibilità di protezione.
Ci preoccupano la "profilazione" o la
vendita dei dati dei clienti da parte delle società commerciali, si invocano
misure contro il mail spamming, si mettono (giustamente) sotto inchiesta
gli enti sanitari sospettati di di trattamenti illeciti di dati sensibili. Si
protesta contro Echelon e contro i progetti internazionali di lotta alla
criminalità.
E non ci si accorge che siamo tutti legalmente schedati, sulla base del
discutibile presupposto che ogni cittadino è un possibile criminale. |