Il principio di finalità e la
finalità del principio
di Manlio Cammarata - 20.02.03
Il Garante interviene di nuovo contro il mail spamming e la raccolta
indiscriminata di indirizzi e-mail reperibili sulla rete (vedi l'ultimo comunicato). E boccia senza mezzi termini l'invio
di comunicazioni commerciali non precedute dal consenso informato del
destinatario.
E' l'ennesimo tentativo di porre un freno all'ormai intollerabile valanga di
posta indesiderata che invade le caselle di tutti gli utenti del'internet.
Risale infatti all'11 febbraio 2001 la prima
decisione in materia, nella quale erano esposti i criteri della
"condanna", costantemente ribaditi nelle successive (vedi l'elenco in
fondo a questa pagina).
Quali siano questi criteri è presto detto:
1. Il fatto che un indirizzo sia pubblicato su una pagina web non
significa che sia "pubblico". L'apparente ossimoro deriva da
un'interpretazione restrittiva dell'espressione "pubblici registri,
elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque" (art. 12, comma 1, lett. c), della legge
675/96. Secondo il Garante l'aggettivo "pubblici" non significa
"a disposizione di tutti", ma "formati o tenuti da uno o più
soggetti pubblici".
2. Il fatto che l'interessato abbia reso pubblico il proprio indirizzo in
una pagina web, per esempio nell'ambito di un newsgroup, non significa che esso
sia utilizzabile per scopi diversi da quelli per cui è stato pubblicato (principio
di finalità del trattamento).
3. L'invio di messaggi commerciali è subordinato al preventivo consenso
informato dell'utente (opt-in). Questo aspetto, non del tutto chiaro nella
normativa vigente, è stato comunque reso esplicito dall'art. 13, comma 1, della nuova direttiva
comunitaria (2002/58/CE), in corso di recepimento.
Lineare, chiaro. Ma, evidentemente, poco efficace, se continua (e cresce)
l'attività degli "spammatori", anche di evidente stabilimento nel
nostro Paese.
A voler essere pignoli, qualche punto debole nelle argomentazioni del Garante si
potrebbe trovare, per esempio dove mette insieme gli "elenchi
pubblici" con gli "atti e documenti conoscibili da chiunque",
espressione che sembra aggiungere una categoria diversa da quella dei registri
"pubblici" in senso stretto.
Anche la necessità della richiesta preventiva del consenso potrebbe essere
contestata, alla luce dell'art. 12, comma
1, lett. f) della 675/96, poiché questo tipo di trattamento "riguarda dati
relativi allo svolgimento di attività economiche raccolti anche ai fini
indicati nell'articolo 13, comma 1, lettera e)". E in quest'ultima
disposizione si prevede la possibilità per l'interessato "di opporsi"
al trattamento, con una chiara ipotesi di opt-out.
Si potrebbe anche obiettare che un semplice indirizzo e-mail spesso non
costituisce "dato personale" ai sensi dell'art. 1 della legge, in
quanto nella maggior parte dei casi la struttura dell'indirizzo non è
riferibile a una determinata persona fisica o giuridica (per esempio:
mario@qualc.boh). Ma si tratta di interpretazioni deboli, che cadono di fronte
alla mens legis, cioè ai principi ispiratori della normativa. Con un
gioco di parole si può dire che il "principio di finalità" è
confermato dalla "finalità del principio".
Tuttavia il quadro non è del tutto soddisfacente, e non solo perché la
regolamentazione italiana e europea non è in grado di arginare, se non in
piccolissima parte, la valanga dei messaggi indesiderati che proviene da ogni
angolo del mondo. Anche l'esplicito divieto di "camuffamento" del
mittente, introdotto dall'art. 13, comma
4, della nuova direttiva, si rivela di difficile applicazione.
Con la conseguenza, purtroppo non nuova, che le proprio le regole più corrette
finiscono col limitare l'attività degli operatori onesti e attenti al rispetto
delle leggi, mentre non toccano i più abili e spregiudicati.
Ma a questo punto dobbiamo fare i conti con un altro aspetto della questione:
i messaggi inviati da operatori commerciali possono non essere considerati
inutilmente invasivi da parte di altri operatori. I quali, anzi, possono in
molti casi trovarli interessanti per estendere i loro affari. Dunque è
necessario non fare di ogni erba un fascio e dettare norme più aperte per
quello che possiamo definire come spamming business to business. La quasi
completa assimilazione delle persone fisiche con enti e persone giuridiche
compiuta dalla legge italiana non è condivisa a livello comunitario e la nuova
direttiva lascia aperta la regolamentazione dell'invio di messaggi commerciali a
destinatari che non siano persone fisiche (art.
13, comma 5). Anche il terzo comma dello stesso articolo lascia al
legislatore nazionale la scelta tra opt-in e opt-out nei casi diversi da quelli
previsti dai commi 1 e 2 (il primo si riferisce allo spamming puro e semplice e
il secondo alle comunicazioni degli operatori ai propri clienti).
Si deve considerare un altro punto: per ottenere il consenso preventivo può
essere indispensabile inviare una richiesta. Altrimenti come fa il destinatario
a esprimere il consenso stesso? Questo è un aspetto che deve essere risolto,
perché vietare una prima comunicazione che contenga solo la richiesta di
consenso al trattamento può costituire un ostacolo allo svolgimento di
legittime attività economiche.
Resta, comunque, il problema dello spamming che viene dall'estero, magari da
mittenti nascosti o camuffati. Problema che può essere risolto, almeno in
parte, con la collaborazione dei provider (che hanno tutto l'interesse a non
saturare la banda trasmissiva e i server di posta con le valanghe di spam),
nell'ambito della sempre annunciata e mai avviata autoregolamentazione.
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