Ancora modifiche al codice dei dati personali. Questa volta per opera dell'art. 29 del decreto legge 112/08, che introduce "semplificazioni" per quanto
concerne il documento programmatico sulla sicurezza (DPS). Fino a oggi incubo
della quasi totalità delle imprese, degli enti e di molti professionisti, da
ora in poi dovrebbe essere obbligatorio per un numero molto più limitato di
soggetti.
Provvedimento necessario e, come osserva Paolo Ricchiuto (Dati personali: semplificazioni vere e apparenti) sotto
qualche aspetto rivoluzionario.
Negli ultimi tempi si sono registrate altre novità nelle regole sul
trattamento dei dati personali, prima fra tutte il documento
del Garante del 19 giugno scorso, con "prescrizioni" volte -
anche queste - alla semplificazione degli adempimenti.
Alla fine di marzo il Garante ha emanato un provvedimento sulle bollette
telefoniche (anche le ultime tre cifre potranno
essere in chiaro). Anche questa potrebbe essere considerata una specie di
semplificazione, ma con qualche dubbio interpretativo, come spiega Andrea Monti
in Dati delle telefonate in
chiaro, un provvedimento discutibile.
Tutto questo porta alla paradossale constatazione che "la
semplificazione è complicata": basti considerare che è la quindicesima volta, se i nostri calcoli sono esatti,
che il codice dei dati personali subisce modifiche. E questa è già di per sé
una notevole complicazione, vista la sostanziale impossibilità di conoscere i testi
vigenti delle leggi dello Stato per la maggior parte dei cittadini italiani.
C'è da chiedersi in quale misura tutto questo apparato normativo, tutti
questi adempimenti, tutte queste complicazioni, siano realmente efficaci per
proteggere la sfera riservata delle persone.
Gli attacchi alla riservatezza, legittimi o non legittimi, sono oramai una
costante della nostra esistenza. Oltre ai trattamenti "normali" e
indispensabili per le attività amministrative e commerciali, ci sono le sempre
più penetranti invasioni, motivate dalla sicurezza, nella dimensione
personale di ciascuno di noi.
Già prima dell'11 settembre del 2001 c'erano motivi di preoccupazione per i
trattamenti di dati svolti dalle forze dell'ordine in un contesto di carenza
normativa. Ora le intrusioni sono sempre più generalizzate, i controlli più
penetranti, le banche dati sempre più ricche di informazioni dettagliate su
ciascuno di noi.
Poco possono fare i garanti, se non deplorare e raccomandare, perché di
fatto questi trattamenti sfuggono a qualsiasi controllo che non sia meramente
formale. Pensiamo solo alla quantità di telecamere che registrano ogni nostro
movimento nei luoghi pubblici (e non solo pubblici), ai controlli a cui siamo
sottoposti quando stiamo per salire su un aereo, o semplicemente alle
informazioni che ci lasciamo alle spalle quando entriamo o usciamo dal luogo di
lavoro, entriamo in un ufficio pubblico o di una grande azienda. O anche, da
ultimo, quando comperiamo un medicinale in farmacia e dobbiamo esibire la
tessera sanitaria.
Aggiungiamo l'enorme quantità di "tracce" che lasciamo ogni volta
che usiamo una carta di credito o di debito, passiamo una notte in albergo,
facciamo un acquisto on line, o semplicemente usiamo un motore di ricerca per
trovare qualche informazione sul web.
Questa massa di dati è oro per le aziende che operano nel marketing.
L'aggregazione dei dati e la "profilazione" degli utenti sono
all'ordine del giorno e avvengono sotto il naso delle autorità che dovrebbero
vigilare sulla privacy, che nulla possono per colpire trattamenti che si
svolgono in un non-luogo che sfugge a ogni giurisdizione.
In tale contesto, una questione come quella relativa all'applicabilità della
rivelazione delle ultime tre cifre dei numeri telefonici chiamati da chi paga la
bolletta, in relazione alla modalità di pagamento, appare francamente risibile.
I provvedimenti per determinare in quali casi ci sia l'obbligo di redigere il
DPF, o i criteri secondo i quali rendere l'informativa in un modo piuttosto che
in un altro, si rivelano problemi di scarsissima rilevanza e trascurabile
efficacia.
Una normativa di dimensioni imponenti, dettagliata, minuziosa, provvista di
sanzioni anche pesanti, si rivela del tutto inutile di fronte a ben più
pervasive intrusioni nella vita privata di milioni e milioni di individui.
Ci si deve chiedere allora che senso ha tutto questo. Se, di fronte alla
sostanziale fine della privacy, non sarebbe meglio buttar giù questo
mastodontico apparato normativo, per sostituirlo con poche, chiare norme di
principio, di portata generale. E poi dedicare ogni sforzo possibile a
ricercare, identificare e sanzionare le violazioni dei principi, comunque e
dovunque siano commesse.
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