Attenzione, il digital divide è in
casa nostra
06.11.02
In questi giorni si discute la legge finanziaria, il grande e confuso
calderone che in un modo o nell'altro esprime la visione del Parlamento su come
il nostro Paese debba svilupparsi nel prossimo futuro. Per le materie che ci
interessano, il disegno di legge presentato dal Governo non soddisfa neanche un
po' le attese che erano state suscitate dai proclami elettorali, ed è
addirittura più deludente del già poco entusiasmante documento di
programmazione economica e finanziaria presentato nello scorso mese di luglio
(vedi Ma la banda deve essere soprattutto
"lunga", La
"modernizzazione" è rimandata e l'intervista a Francesco Chirichigno).
L'opposizione presenta una serie di emendamenti. Li
leggiamo con interesse, nella speranza di trovare le tracce di una visione
complessiva dello sviluppo della società dell'informazione, di un quadro
sistematico che, tenendo conto della situazione economica e delle ristrettezze
di bilancio, abbia il respiro di un "progetto" che si confronti con le
asfittiche iniziative della maggioranza.
Invece troviamo le solite proposte poco coordinate, parziali e spesso improntate
a una visione burocratica e demagogica dei problemi, che fatica a confrontarsi
con la realtà.
Prendiamo l'importante questione dell'adozione del software libero nella
pubblica amministrazione. La prima proposta insiste nel vecchio tentativo di
obbligare in qualche modo gli uffici pubblici ad adottare soluzioni aperte. Ma
dimentica che le prime, vere difficoltà che sorgono quando un'amministrazione
cerca di abbandonare le strade consuete sono costituite dalla necessità di
introdurre nuove conoscenze e di interoperare con l'esterno. Occorre impostare
un progetto complessivo, che affronti tutti i nodi del cambiamento, facendo
tesoro delle esperienze settoriali e isolate - non poche - che sono state fatte
negli ultimi tempi. E' la cultura stessa dell'open source che deve essere
trasfusa nell'amministrazione, la cultura della collaborazione e della somma di
esperienze che vengono messe in comune.
Ma è ancora più importante la parte che riguarda il digital divide. Un
lungo emendamento propone di avviare un programma di "lotta al digital
divide internazionale", come se sulla materia fossimo così bravi da
metterci in cattedra per insegnare agli altri come si fa. E invece il digital
divide è in casa nostra.
E' fatto di alti costi di connessione, di insensati spot pubblicitari, di
indisponibilità della banda larga in troppe zone della penisola. Telecom Italia
(ancora, per questa parte, monopolista di fatto) batte la grancassa dei 1.300
comuni nei quali è disponibile - sulla carta - l'ADSL. Peccato che i comuni in
tutto siano più di 8.500: vuol dire che in oltre l'80 per cento dei comuni
italiani non è possibile mettere in piedi semplici attività di telelavoro o
collegare a basso costo le piccole imprese (ricordiamo che per queste realtà
l'ADSL non è essenziale tanto per l'ampiezza della banda, quanto per la sua
"lunghezza", cioè per la possibilità di lunghe connessioni senza
l'incubo della bolletta).
Un esempio: intorno a Roma c'è un'area il cui sviluppo economico è molto
meno forte di quello del resto della fascia che circonda la capitale. Si snoda
verso nord lungo l'antico tracciato della via Flaminia, un'infrastruttura
asfittica che non ha consentito di attivare insediamenti industriali. E' il
luogo ideale per mettere in piedi attività che si svolgano soprattutto on line
(salvaguardando, fra l'altro, un ambiente naturale ancora abbastanza vivibile).
Ebbene, proprio a causa della scarsa rilevanza economica delle attività che vi
si svolgono, quest'area è l'unica intorno a Roma in cui l'ADSL non c'è, e
l'operatore telefonico dominante nemmeno prevede di installarlo. Vengono quindi
a mancare le opportunità di sviluppo proprio dove sarebbero più necessarie.
Questo è il digital divide. Una linea che non passa per i tradizionali
confini tra il nord e il sud, ma gli "have" e gli "have not",
cioè tra i ricchi e i poveri del progresso delle tecnologie. Ricchi e poveri
non solo di infrastrutture, ma anche della cultura che serve a sfruttarle.
E' qui che deve intervenire lo Stato. E' su progetti di sviluppo
"sostenibile" come quelli legati alle attività on line che si devono
concentrare le poche risorse finanziarie disponibili. Se non riusciamo a
risolvere il digital divide di casa nostra, che cosa andiamo a raccontare a casa
d'altri?
Tutto quello che possiamo fare è insegnare come si costruiscono le
infrastrutture di chiacchiere, come abbiamo osservato quando due ministri
indicarono nel telelavoro la soluzione ai problemi dell'emergenza ambientale
(vedi Telecommuting e
infrastrutture di chiacchiere, del non lontano 31 gennaio di quest'anno).
Dove sono i progetti per lo sviluppo del telelavoro? Qualcuno ha pensato che per
lavorare a distanza occorrono collegamenti di lunga durata, a costo fisso (e
contenuto)? Proprio quei collegamenti che agli operatori di telecomunicazioni
non conviene fornire? |