3. Il valore probatorio
Affrontiamo ora il vero punto critico del recepimento della direttiva, che
coinvolge proprio il principio del documento informatico nella normativa
italiana e i suoi effetti processuali. Ricordiamo che la firma digitale
"all'italiana" serve a produrre documenti "validi e rilevanti a
tutti gli effetti di legge" e in particolare che "Il documento
informatico sottoscritto con firma digitale, redatto in conformità alle regole
tecniche [.] soddisfa il requisito legale della forma scritta e ha efficacia
probatoria ai sensi dell'articolo 2712 del Codice civile" (art.
10 del TU) e che "Il documento informatico, sottoscritto con firma
digitale [.], ha efficacia di scrittura privata ai sensi dell'articolo 2702
del codice civile.
Stabilisce la direttiva:
Articolo 5 - Effetti giuridici delle firme elettroniche
1. Gli Stati membri provvedono a che le firme elettroniche avanzate basate su un
certificato qualificato e create mediante un dispositivo per la creazione di una
firma sicura:
a) posseggano i requisiti legali di una firma in relazione ai dati in forma
elettronica così come una firma autografa li possiede per dati cartacei; e
b) siano ammesse come prova in giudizio.
2. Gli Stati membri provvedono affinché una firma elettronica non sia
considerata legalmente inefficace e inammissibile come prova in giudizio
unicamente a causa del fatto che è
- in forma elettronica, o
- non basata su un certificato qualificato, o
- non basata su un certificato qualificato rilasciato da un prestatore di
servizi di certificazione accreditato, ovvero
- non creata da un dispositivo per la creazione di una firma sicura.
Nessun problema per il paragrafo 1: il documento informatico ai sensi della
normativa italiana soddisfa ambedue le condizioni; invece il problema è nel
secondo paragrafo: una ragionevole (ma non del tutto soddisfacente)
interpretazione dell'art. 10 del TU, porta alla conclusione che il nostro
legislatore abbia inteso negare un valore probatorio civilistico ai documenti
non provvisti della firma digitale sicura, circostanza esplicitamente esclusa
dal legislatore comunitario. Dunque il decreto di recepimento della direttiva
dovrà fare chiarezza su questo importantissimo aspetto, o con la previsione
esplicita del valore probatorio di qualsiasi firma elettronica, o con un
"allargamento" delle previsioni dell'art. 10 del TU (per alcune
considerazioni più approfondite su questo aspetto vedi Il
valore probatorio del documento informatico).
4. La firma digitale nel settore pubblico
Non dovrebbe costituire un ostacolo il requisito della firma sicura
nell'ambito dei rapporti con la pubblica amministrazione, perché l'ultimo
paragrafo del già citato articolo 3 della direttiva dispone:
7. Gli Stati membri possono assoggettare l'uso delle firme elettroniche
nel settore pubblico ad eventuali requisiti supplementari. Tali requisiti
debbono essere obiettivi, trasparenti, proporzionati e non discriminatori e
riguardare unicamente le caratteristiche specifiche dell'uso di cui trattasi.
Tali requisiti non possono rappresentare un ostacolo ai servizi transfrontalieri
per i cittadini.
Se il requisito della firma "avanzata" è "supplementare"
rispetto alla firma semplice, allora il sistema italiano è perfettamente
compatibile con le disposizioni comunitarie. In caso contrario si dovranno
esaminare i vari fattori in gioco e in particolare l'interoperabilità dei
sistemi adottati dai diversi Stati, che a oggi costituisce l'ostacolo più
rilevante alla diffusione della firma digitale su vasta scala.
5. I requisiti dei certificatori
Un altra difformità della normativa italiana dalle prescrizioni della
direttiva si riscontra nei requisiti dei "prestatori di servizi di
certificazione qualificati" (i nostri "certificatori"). Infatti
l'art. 27 del TU, comma 1, lettera a)
stabilisce che i certificatori devono avere "forma di società per azioni e
capitale sociale non inferiore a quello necessario ai fini dell'autorizzazione
all'attività bancaria, se soggetti privati". Il capitale minimo richiesto
è quindi pari a 12,5 miliardi di lire, secondo le "Istruzioni" della
Banca d'Italia, pubblicate sulla Gazzetta ufficiale 21 febbraio 1994. La
direttiva è più generica:
ALLEGATO II
Requisiti relativi ai prestatori di servizi di certificazione che rilasciano
certificati qualificati
I prestatori di servizi di certificazione devono:
[.]
d) disporre di risorse finanziarie sufficienti ad operare secondo i requisiti
previsti dalla direttiva, in particolare per sostenere il rischio di
responsabilità per danni, ad esempio stipulando un'apposita assicurazione;
[.]
Il problema è capire se la cifra tassativamente prescritta dalla Banca
d'Italia sia compatibile con il concetto generico delle "risorse
sufficienti" previste dalla direttiva. La soluzione che sarà adottata nel
decreto di recepimento potrebbe essere argomento di contenzioso, nel caso in cui
il nostro legislatore scegliesse di mantenere il requisito del capitale minimo
pari a quello necessario per l'esercizio dell'attività bancaria. E' quindi
logico immaginare che il riferimento diretto al capitale minimo (come quello
relativo alla forma di società per azioni) sarà cancellato dal decreto.
6. Il problema delle definizioni
Un altro aspetto tutt'altro che marginale che dovrà essere affrontato nel
decreto di recepimento riguarda le definizioni. L'attuale normativa italiana
parla di "firma digitale", quella europea distingue tra "firme
elettroniche" senza ulteriori specificazioni e firma elettronica
"avanzata" o "sicura". Manca un aggettivo che aiuti a
classificare le prime, mentre per la seconda sarebbe stato opportuno usare
sempre un solo aggettivo, preferibilmente il più efficace "sicura".
Nel testo del decreto si dovrebbe comunque evitare di usare l'aggettivo
"elettronica" per la firma sicura, o di considerare come sinonime le
espressioni "firma elettronica sicura" e "firma digitale",
come se la firma digitale fosse una varietà più affidabile di firma
elettronica: di fatto possono esistere firme digitali assolutamente insicure:
basta non rispettare uno solo dei quattro requisiti elencati dalla direttiva,
come abbiamo visto nell'articolo precedente.
Un problema analogo si pone per la qualificazione delle entità di
certificazione: non c'è dubbio che i nostri "certificatori" sono i
"prestatori di servizi di certificazione qualificati" della direttiva,
ma come definire le strutture che emettono certificati "non
qualificati"?
Tenendo presente che i trattati comunitari non obbligano gli Stati membri a
"copiare" letteralmente le direttive, il legislatore italiano farebbe
bene a riscrivere alcuni punti dell'articolo 22 del TU in modo di evitare
confusioni: la firma digitale "all'italiana" potrebbe sempre essere
definita con l'aggettivo "sicura", mentre si potrebbe definire l'altra
come "firma elettronica semplice", visto che l'aggettivo
"insicura" desterebbe molte perplessità, anche se perfettamente
adeguato alla realtà delle cose.
Per quanto riguarda i certificatori, si potrebbe distinguere tra
"certificatori accreditati" e "certificatori non
accreditati", evitando la chilometrica definizione della direttiva. E
ancora, si dovrà distinguere tra "certificato qualificato" e
"certificato non qualificato", mentre il dispositivo di firma dovrà
diventare "dispositivo di firma sicura" e via discorrendo.
In questo modo si eviteranno facili equivoci, dei quali potrebbe approfittare
qualche disinvolta "certification authority", appostata in un remoto
angolo del web. Ma in primo luogo si dovrà assolutamente evitare di
identificare i certificatori accreditati con la definizione in inglese, estranea
alla nostra normativa, come purtroppo ha già fatto qualcuno dei primi
certificatori iscritti (e la stessa AIPA in qualche documento ufficiale).