Il nuovo Codice dell’amministrazione digitale (Decreto
legislativo 7 marzo 2005, n. 82) prevede all’art. 21, comma 2, che “2. Il
documento informatico, sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di
firma elettronica qualificata, ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702
del codice civile. L’utilizzo del dipositivo di firma si presume
riconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria.”
Come evidente, la scelta del legislatore è stata di “ritornare” all’efficacia
probatoria equivalente alla “scrittura privata”, quindi efficacia fino a
querela di falso (soltanto) nel caso di riconoscimento da parte dell’autore, o
meglio del titolare del dispositivo sicuro di firma, ovvero salvo
disconoscimento di tale utilizzo da parte di quest’ultimo. In tal caso
specifico si pone, evidentemente, a carico del soggetto che intende valersi
della scrittura privata prodotta in giudizio l’onere di provare la provenienza
della scrittura ed in particolare della sottoscrizione elettronica.
Peraltro, il legislatore ha voluto fornire un elemento
aggiuntivo, rispetto alla tradizionale disciplina codicistica, al fine di meglio
chiarire come potrebbe avvenire il processo di disconoscimento, e quindi di
verificazione giudiziale, stabilendo un principio di presunzione juris tantum
di utilizzo del dispositivo sicuro di firma. Ciò ad evitare di gravare la parte
che produce il documento – poi disconosciuto – di un onere probatorio
eccessivamente gravoso se non “impossibile” (si veda al riguardo, su queste
colonne, G. Bonomo, Effetti probatori: si
torna ai principi del processo civile – 3, P. Ricchiuto, La firma digitale ritrova se stessa. Forse ... , F.
Ricci, Sulla presunzione di utilizzo del dispositivo di
firma , e – sia consentito – il mio precedente intervento, E' utile la presunzione di utilizzo del
dispositivo di firma”).
La presunzione di utilizzo del dispositivo sicuro di firma
opera, dunque, a favore di chi produce in giudizio la scrittura privata, o
meglio il documento informatico sottoscritto con firma digitale o elettronica
qualificata (d’ora innanzi useremo l’espressione “documento informatico
sottoscritto elettronicamente”), nel senso che dispensa quest’ultimo dall’onere
di provare che è stato effettivamente il titolare ad utilizzare materialmente
il dispositivo sicuro di firma al fine di effettuare la sottoscrizione
elettronica. Nello stesso tempo opera anche a favore del medesimo titolare,
nella misura in cui gli consente di liberarsi degli effetti di un utilizzo
abusivo di tale dispositivo di firma dando prova, con qualsiasi mezzo, che l’utilizzo
non è a lui riconducibile.
Si deve notare che la “forza” ed il “pregio” della soluzione adottata
risiedono proprio nell’interessante “bilanciamento di interessi” che è
stato operato, laddove si è sgravata la parte che produce il documento
informatico in giudizio di una prova diabolica, l’utilizzo del dispositivo
sicuro di “mano” del titolare, mentre si è “garantito” al titolare
medesimo del dispositivo di firma la possibilità di liberarsi subito degli
effetti ingiusti e pregiudizievoli di un utilizzo abusivo, semplicemente
fornendo prova contraria, senza nemmeno dover proporre querela di falso.
A questo punto assumerà rilievo fondamentale la
giurisprudenza che si formerà in tema di “riconducibilità” dell’uso del
dispositivo di firma sicuro e di “prova contraria” valutata come sufficiente
al fine di vincere la presunzione juris tantum ed ottenere quindi il
disconoscimento della scrittura privata elettronica.
Ad onor del vero, la formulazione attuale dell’art. 21, comma 2, del Codice
dell’amministrazione digitale si presta a qualche ambiguità, o forse a
qualche forzatura interpretativa, che sarebbe bene scongiurare per evitare
risultati indesiderati ed ingiusti.
L’ambiguità potrebbe discendere dal fatto che nel principio di “riconducibilità”
taluno potrebbe pensare di rinvenire il riconoscimento della possibilità di
affidare l’utilizzo del dispositivo a terzi.
Non è certo negabile che le firme elettroniche abbiano una peculiarità
ineliminabile rispetto alle firme autografe: la necessità del ricorso all’utilizzo
di un mezzo meccanico (il dispositivo sicuro di firma) per poter essere
validamente impiegate.
Questa peculiarità ha spinto qualche commentatore,
prescindendo dagli effetti riconosciuti dall’ordinamento, e più da un punto
di vista concettuale, a negare la natura di “firma” al un risultato di una
procedura informatica dove il mezzo meccanico che contiene la chiave privata che
identifica il titolare possa essere separato fisicamente dal titolare stesso
(mentre, in effetti, una scrittura non è fisicamente separabile dal soggetto
che la esprime, tanto che la scrittura viene definita un’espressione “psico-somatica”
dell’individuo).
Poiché la possibilità di una tale separazione esiste, tanto vale affrontare l’argomento,
consapevoli anche che si assiste da alcuni titolari di firma digitale ed anche
da taluni professionisti, nonostante le istruzioni dei certificatori qualificati
siano nettamente contrarie a tale pratica, alla delega nella custodia e persino
– ahimè- nell’utilizzo di tale dispositivo.
Analizziamo dunque con attenzione il problema della possibilità fisica di
affidamento dell’utilizzo del dispositivo sicuro di firma (in dottrina, F.
Ricci ha proposto la qualificazione di “Mandato a firmare mediante
somministrazione dei mezzi necessari”) e della correlata possibilità di
disconoscimento degli effetti derivanti, sia da un punto di vista fisiologico,
sia patologico, e prendiamo in esame possibili soluzioni.
Una prima possibilità di soluzione del problema
consisterebbe nell’interpretare la “riconducibilità” sulla base dell’elemento
soggettivo del titolare. In questo senso sarebbe necessario valutare se l’utilizzo
del dispositivo sicuro discenda da un atto volontario del titolare, mediante
conferimento di un mandato a firmare elettronicamente, ovvero da un atto abusivo
di un terzo che potrebbe aver sottratto il dispositivo medesimo, ovvero ancora
da un abuso del mandatario pur originato dal titolare del dispositivo sicuro (e
del certificato qualificato) che ha conferito il mandato.
Nel primo caso la conclusione appare agevole ed anche logica: quando l’utilizzo
avviene contro la volontà del titolare, per furto o smarrimento, esso non
sarebbe a lui riconducibile e quindi il disconoscimento logico e corretto.
Non ci occupiamo in questa analisi dei casi di errore, violenza e dolo nella
formazione della scrittura privata elettronica, essendo evidentemente
applicabile la normale disciplina codicistica sull’annullamento, non
costituendo la forma elettronica una specificità che richiede disciplina
speciale in questo senso.
Diverso dovrebbe essere, invece, il caso in cui il dispositivo sia stato “affidato”
(volontariamente) ad un terzo, nell’ambito di un mandato, senza tuttavia che
si sia generato un utilizzo abusivo. In questo caso non dovrebbe essere permesso
il disconoscimento della scrittura privata elettronica per il solo fatto che il
dispositivo è stato materialmente utilizzato da un terzo a cui tale utilizzo
era stato (volontariamente) affidato.
E’ di tutta evidenza che un tale disconoscimento sarebbe ingiusto, in quanto
di mero comodo, quindi malizioso se non fraudolento, e come tale dovrebbe essere
evitato. L’utilizzo del dispositivo dovrebbe rimanere, in questo caso,
riconducibile al titolare, anche se non materialmente azionato.
Più complicato appare il caso dell’utilizzo abusivo da parte dell’affidatario
del dispositivo di firma. Un tale utilizzo del dispositivo sicuro sarebbe,
infatti, contro la volontà del titolare e quindi ad esso “non riconducibile”
quanto a contenuto del documento, pur se vi sarebbe un atto di attribuzione
dello strumento di sicurezza che presidia l’apposizione della sottoscrizione
elettronica. In questo caso un disconoscimento sarebbe probabilmente giusto
anche se non del tutto logico visto che il comportamento del titolare avrebbe
certamente agevolato tale situazione ed andrebbe contro la tutela dell’affidamento
del terzo.
Il ricorso a considerare l’elemento soggettivo sottostante all’utilizzo del
dispositivo ci consentirebbe, dunque, di evitare conseguenze ingiuste in sede di
disconoscimento e tuttavia ci porterebbe ad effetti perversi laddove un tale
elemento di discrimine portasse alla implicita considerazione della possibilità
di affidamento nell’utilizzo del dispositivo di firma.
Effetti tanto perversi che ci condurrebbero addirittura alla possibile negazione
della funzione di sottoscrizione per le firme elettroniche qualificate e
digitali che potrebbero degradare a meri sigilli informatici. Occorre, dunque,
trovare un qualche elemento ulteriore e maggiormente esplicativo.
Una seconda possibilità di soluzione del problema
potrebbe consistere nello specificare, a livello normativo, che la
riconducibilità si ha con riguardo alla “volontà” del titolare del
dispositivo sicuro di firma.
In questo senso si potrebbe ipotizzare di modificare la parte finale dell’art.
21, comma 2, nel modo seguente:
“L’utilizzo del dipositivo di firma si presume riconducibile alla
volontà del titolare, salvo che sia data prova contraria.”
Tuttavia anche questa soluzione, che invero non differisce di molto dalla
precedente, salvo la specificazione letterale del criterio interpretativo, non
appare del tutto soddisfacente: è infatti evidente che, se da un lato ci
consentirebbe di evitare il disconoscimento di comodo (patologico) di una
sottoscrizione affidata maliziosamente ad un terzo e poi disconosciuta nel
momento del “bisogno”, nonostante una volontà iniziale retrostante, da un
altro lato rischia di legittimare implicitamente la possibilità dell’affidamento
del dispositivo, laddove si volesse leggere nella riconducibilità alla volontà
del titolare la costruzione di un “meccanismo di imputabilità” degli
effetti giuridici, prescindendo - come tale - dalla materialità dell’utilizzo
del dispositivo.
Dunque anche questa soluzione non appare pienamente convincente ed anzi sembra,
per certi versi, amplificare i problemi.
A questo punto, come terza possibilità di soluzione,
si potrebbe pensare di abbinare alla modifica dell’art. 21, comma 2,
presentata nella seconda soluzione, anche una modifica dell’art. 32, comma 1,
del Codice dell’amministrazione digitale, ove si potrebbe specificare che l’utilizzo
del dispositivo sicuro non è attribuibile ad alcuno. Anzi, in chiave positiva,
ove si potrebbe prescrivere l’obbligo dell’utilizzo personale del
dispositivo di firma.
Si potrebbe, pertanto, ipotizzare la seguente modifica dell’art. 32, comma 1:
“1. Il titolare del certificato di firma è tenuto ad adottare tutte le
misure organizzative e tecniche - ivi compresi i profili di custodia del
dispositivo di firma - idonee ad evitare danno ad altri ed a utilizzare
personalmente il dispositivo di firma".
Si noti, incidentalmente, che si ritiene preferibile
abbandonare il riferimento, contenuto nella versione attuale del Codice, alla
“diligenza del buon padre di famiglia” quale obbligo a carico del titolare
nell’utilizzo del dispositivo di firma. Ciò in quanto la diligenza del “buon
padre di famiglia” potrebbe apparire un minus rispetto alla
prescrizione contenuta nella prima parte della medesima norma che richiede,
invece, l’adozione di “tutte le misure organizzative e tecniche” idonee ad
evitare danno. Anzi, mi sembra che appaia insufficiente, considerata la natura
dello strumento.
In alternativa, dunque, al fine di raggiungere lo scopo che immagino si volesse
ottenere, si potrebbe pensare di specificare che “tutte le misure” si
riferisce anche alla custodia del dispositivo.
A questo punto, al fine di meglio chiarire che l’utilizzo del dispositivo
sicuro di firma, proprio perché inserito in un meccanismo giuridico che assume
valenza di sottoscrizione personale, deve essere personale e non delegabile a
terzi, ritengo sarebbe preferibile introdurre una chiara specificazione a
livello normativo di tale obbligo, come sopra indicato.
In questo modo si chiuderebbe la porta ad interpretazioni che volessero trovare
nella “riconducibilità” alla volontà del titolare la base di
legittimazione della possibilità di affidamento a terzi dell’utilizzo del
dispositivo di firma.
Giunti a questo punto, tuttavia, la soluzione non appare completa, o forse non
pienamente soddisfacente
Potrebbe, infatti, permanere il rischio di un eventuale ulteriore uso distorto
che potrebbe derivare dall’applicazione di tale ultima modifica dell’art.
32, comma 1, del Codice dell’amministrazione digitale.
In effetti, potrebbe presentarsi ancora il rischio di un disconoscimento
malizioso o fraudolento da parte di chi avesse nondimeno affidato il proprio
dispositivo a terzi, nonostante il divieto esplicito a livello normativo
(peraltro non sanzionato), adducendo, proprio per questo motivo, la “non
riconducibilità” della sottoscrizione elettronica a sé in quanto operata da
un terzo.Posto che, per principio giuridico, nessuno potrebbe invocare a proprio
vantaggio gli effetti derivanti da una propria violazione, sarebbe tuttavia
opportuno evitare questo rischio inserendo opportune norme al riguardo.
Quale quarta possibilità si potrebbe, pertanto,
ipotizzare, al fine di rafforzare il complesso delle disposizioni che regolano l’utilizzo
del dispositivo sicuro e di riflesso il disconoscimento della sottoscrizione
elettronica, di specificare nell’art. 21, comma 2, che il disconoscimento
della scrittura privata, o meglio che la prova contraria a fine di vincere la
presunzione juris tantum di utilizzo del dispositivo di firma, non può
derivare in ogni caso da una violazione degli obblighi di custodia e protezione
a carico del titolare di cui all’art. 32, comma 1.
In questo modo si potrebbe modificare l’art. 21, comma 1, nel modo seguente:
“L’utilizzo del dispositivo di firma si presume riconducibile alla
volontà del titolare, salvo che sia data prova contraria. In ogni caso il
disconoscimento non può derivare da una violazione degli obblighi a carico del
titolare di cui all’art. 32, comma 1”.
E’ evidente che in questo modo si conseguirebbe allo stesso tempo:
- l’obiettivo di stabilire con chiarezza che il dispositivo sicuro di firma
deve essere utilizzato personalmente, senza possibilità di affidamento a terzi;
- l’obiettivo di obbligare il titolare di firma ad adottare modalità di
custodia adeguate alla natura del dispositivo ed alle conseguenze giuridiche che
derivano da tale utilizzo;
- l’obiettivo di introdurre nella procedura di disconoscimento dell’utilizzo
del dispositivo di firma la valutazione dell’elemento soggettivo al fine di
distinguere gli utilizzi contro la volontà del titolare da quelli indotti dalla
volontà del titolare (nonostante il divieto di affidamento del dispositivo),
per i quali evidentemente non potrebbe operare la facoltà di vincere la
presunzione di utilizzo;
- l’obiettivo di evitare possibili disconoscimenti di comodo da parte del
titolare del dispositivo di firma, semplicemente adducendo di aver affidato il
dispositivo a terzi;
- l’obiettivo di proteggere comunque il titolare del dispositivo di firma
affidato a terzi per gli utilizzi contro la sua volontà, e quindi ingiusti e l’ulteriore
obiettivo di costringere il titolare, in questi casi, a risarcire i danni
cagionati a terzi a titolo di responsabilità extra-contrattuale per via del suo
comportamento “pericoloso”, o meglio che li ha esposti al rischio di un
danno, o se si vuole quale tutela dell’affidamento del terzo.
Tale soluzione, del resto, appare coerente con quanto
elaborato dalla dottrina e con la giurisprudenza in tema di “riempimento
abusivo di foglio in bianco”.
Premesso che le due fattispecie non paiono pienamente paragonabili in quanto,
sebbene abbiano in comune gli effetti finali, coincidenza o meno della
dichiarazione contenuta nel documento alla volontà del titolare, hanno tuttavia
presupposti fattuali differenti.
In effetti, nel riempimento di foglio in bianco si assiste al completamento del
contenuto della dichiarazione di atti o fatti giuridicamente rilevanti mediante
formazione del contenuto documentale, a fronte di una preesistente
sottoscrizione autografa; nell’utilizzo del dispositivo di firma da parte del
terzo si assiste invece alla vera e propria apposizione delle sottoscrizione
(elettronica) ad un documento informatico. Nel secondo caso, dunque, il delegato
opera anche una sottoscrizione che nel primo è invece autografa.
Tuttavia, a parte queste differenze, per quanto riguarda i documenti
tradizionali, secondo la tradizionale dottrina, si possono dare le seguenti
possibilità:
- riempimento del documento absque pactis, cioè non autorizzato dal
sottoscrittore con preventivo patto di riempimento;
- riempimento del documento contra pacta, cioè difforme da quello
consentito dall’accordo precedentemente intervenuto;
- riempimento del documento ex pacto, cioè in modo conforme a quanto
stabilito nell’accordo preventivo con il sottoscrittore.
Evidentemente nulla quaestio per l’ultimo caso, ove si regista
coincidenza della volontà pregressa con la dichiarazione effettiva e dove
quindi il documento risulta sia esistente, sia legittimo. Diversamente per gli
altri due casi.
Al riguardo la giurisprudenza più recente in tema di
scritture private in cui le dichiarazioni in esse contenute non siano piena
espressione della libera volontà di chi formalmente ne risulta l’autore
sembra aver imboccato decisamente la strada che distingue nettamente due
possibilità di rimedio (cfr. in dottrina, sul documento nel diritto e nel
processo civile: P. Milite, Diritto & Diritti, nov. 2000,
http://www.diritto.it/articoli/informatica/milite_cap1.html; si veda anche sull’uso
del dispositivo da parte di terzi non autorizzati e autorizzati dal titolare, M.
Dolzani, Firme Elettroniche, Questioni ed esperienze di diritto privato, Milano,
2003, pag. 85 e segg.; Francesco Ricci, Scritture Private e firme elettroniche,
Milano 2003, pag. 284 e segg. ; R. Zagami, Firma digitale e sicurezza giuridica,
Padova, 2000, pag. 267 e segg.).
Per il caso di riempimento del documento absque pactis, vale a dire in
modo non autorizzato dal sottoscrittore, considerato che l’atto è
inesistente, in quanto non autorizzato, viene richiesta la querela di falso al
fine ottenere una rimozione degli effetti con efficacia erga omnes (cfr.
principalmente Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 23501 del 17 Dicembre 2004, Cass.
Civ., Sez. II, sent. n. 308 del 11 Gennaio 2002).
Ove, invece, si tratti di riempimento del documento contra pacta, e
quindi la sottoscrizione sia in qualche modo preventivamente autorizzata,
considerato che in questo caso l’atto è esistente, pur con difformità del
contenuto rispetto a quanto voluto, per il soggetto danneggiato si prospetta
unicamente la possibilità di un’azione contrattuale (di nullità o di
annullamento) mirante ad una pronuncia inter partes (cfr.
principalmente Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 7975 del 12 Giugno 2000, Cass. Civ.
Sez., II, sent. n. 1259 del 02 Febbraio 1995).
A questo punto è evidente che, sulla base dello schema sopra richiamato,
tenendo tuttavia conto delle differenze che ricorrono tra le diverse
fattispecie, si potrebbe distinguere tra:
- utilizzo del dispositivo sicuro di firma contro la volontà del titolare del
dispositivo di firma;
- utilizzo del dispositivo sicuro di firma in modo difforme dalle istruzioni
ricevute dal titolare del dispositivo;
- utilizzo del dispositivo sicuro di firma in modo conforme alle istruzioni
ricevute dal titolare del dispositivo;
fermo restando che nei due ultimi casi sopra elencati si realizzerebbe una
violazione dell’obbligo di utilizzo personale del dispositivo.
Detto questo, mi sembra che la disciplina risultante dovrebbe
essere la seguente:
- possibilità di disconoscimento per il caso di utilizzo del dispositivo sicuro
di firma non autorizzato dal titolare. In questo caso vi sarebbe, in effetti, la
non “riconducibilità” dell’utilizzo alla volontà del titolare e parrebbe
corretta la perdita di efficacia dei risultati derivanti dalla sottoscrizione
elettronica. Ciò potrebbe valere certamente per il caso di sottrazione o
perdita del dispositivo di firma (previa opportuna e tempestiva denuncia). Più
discutibile sarebbe il caso di affidamento del dispositivo di firma al terzo,
dove l’utilizzo fosse avvenuto completamente al di fuori del controllo del
titolare, in modo fraudolento. La riconducibilità al titolare del dispositivo,
in effetti, può essere interpretata differentemente a seconda che si dia valore
all’affidamento materiale e volontario del dispositivo ovvero al risultato
dell’utilizzo nella formazione del documento. Nel primo caso l’utilizzo non
parrebbe disconoscibile dato che sarebbe riconducibile al titolare, mentre lo
sarebbe, evidentemente, nel secondo, dato che si produrrebbe un falso materiale,
mediante creazione di un documento contro la volontà del titolare, non
proveniente dalla sfera volontaria del titolare, pur se dotato di firma
autentica. Anche accedendo a quest’ultima soluzione – vale a dire della non
riconducibilità al titolare per il caso di utilizzo contro la sua volontà –
occorrerebbe, tuttavia, riconoscere un principio di responsabilità
extra-contrattuale a carico del titolare per i danni causati ai terzi a seguito
della sua violazione dell’obbligo di utilizzo personale del dispositivo di
firma. A maggior ragione, se il soggetto che ha affidato a terzi il proprio
dispositivo fosse un professionista iscritto ad un ordine, si renderebbe forse
necessario un provvedimento disciplinare, viste le gravi conseguenze causate;
- assenza di possibilità di disconoscimento per il caso di utilizzo del
dispositivo sicuro di firma in modo difforme rispetto alle istruzioni ricevute
dal titolare. In questo caso, infatti, vi sarebbe la riconducibilità della
sottoscrizione al titolare, dato che il dispositivo sarebbe stato
volontariamente affidato al terzo, accettando preliminarmente le conseguenze
derivanti da tale utilizzo. La difformità dell’utilizzo rileverebbe
esclusivamente nei rapporti tra le parti. Non sarebbe quindi possibile un
disconoscimento di comodo invocando l’utilizzo da parte di un terzo;
- nessuna questione per il caso di utilizzo del dispositivo sicuro di firma in
modo conforme a quanto consentito, ovvero richiesto, del titolare, considerato
che il risultato positivo conseguito sarebbe a vantaggio di tutti i soggetti
(titolare, affidatario, terzo che fa affidamento sul certificato qualificato),
pur se rimarrebbe la violazione dell’obbligo di utilizzo personale.
Alla luce delle considerazioni esposte, ritengo sarebbe
dunque preferibile aggiornare il Codice dell’amministrazione digitale mediante
un duplice intervento:
- modificando l’art. 21, comma 2, al fine di specificare sia che la
riconducibilità dell’utilizzo ha riferimento all’elemento soggettivo, sia
che il disconoscimento non è possibile per tutti i casi di violazione del
titolare di uno degli obblighi di custodia e protezione del dispositivo sicuro
di firma nonché, principalmente, di violazione dell’obbligo di utilizzo
personale di tale fondamentale strumento di sicurezza;
- modificando l’art. 32, comma 1, al fine di specificare che tutte le misure
organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri devono comprendere
anche quelle relative alla custodia del dispositivo di firma, eliminando invece
il riferimento alla “diligenza del buon padre di famiglia” che potrebbe
risultare fuorviante, ed introducendo l’obbligo di utilizzo personale del
dispositivo di firma in capo al titolare.
Tali interventi risulterebbero favorire una maggiore chiarezza interpretativa
delle norme sul disconoscimento della scrittura privata elettronica, garantendo
l’obiettivo del non-ripudio delle transazioni effettuate mediante contratti
informatici o telematici, pur assicurando la possibilità eliminare le
conseguenze ingiuste di un utilizzo abusivo degli strumenti di sottoscrizione
elettronica ed evitando infine di favorire disconoscimenti di comodo, maliziosi
o fraudolenti.
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