E' proprio di questi giorni la notizia della
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del Codice dell'amministrazione
digitale (decreto legislativo 7 marzo 2005 n. 82 - G.U. 16.05.05 Suppl. Ord.
n.93/L).
Giunge quindi ad un punto importante - non si può certo dire al punto finale -
una corsa lunga e faticosa, caratterizzata da blocchi di partenza obliqui (la
legge delega L. 229/03), da entrate a gamba tesa (il parere del Consiglio di
Stato 07.02.05), da premi della montagna (l' approvazione dello schema del
Codice da parte del Consiglio dei Ministri nella seduta del 04.03.05, e cioè
sei giorni prima che scadesse la delega), da un passaggio in una... galleria
segreta (le settimane intercorse dall'approvazione alla pubblicazione) ed
infine dal taglio del traguardo di tappa, con il formale inserimento in gazzetta
del decreto legislativo.
I problemi che il nuovo apparato normativo pone all'interprete sono
tantissimi, molto complessi, e , soprattutto in sede divulgativa,
richiederebbero una cautela eccezionale.
Ha sorpreso molti, quindi, un articolo comparso su Il Sole 24 Ore del 19 maggio
("Firma digitale più debole" di G. Finocchiaro) nel quale, al di là della
perentorietà usata dal titolista, trovano spazio alcune affermazioni che
fanno riflettere e costituiscono l'occasione per tentare di fare ancora una
volta il punto della situazione.
Riporto, testuale dall'articolo: "Oggi - cioè prima delle modifiche
introdotte dal Codice - si ritiene che anche il documento informatico con
firma elettronica integri la forma scritta".
Si ritiene ?
Basta rileggere le pagine di InterLex dei mesi scorsi, nonché la quasi
totalità degli interventi pubblicati in varie sedi a seguito della improvvida
modifica introdotta dal DLgs 10/02 (improvvidamente confermata dal DPR 137/03),
per verificare come la dottrina abbia unanimemente sottolineato la pericolosità
di una norma che associasse il requisito della forma scritta all'utilizzo di
sistemi di sottoscrizione elettronica - chiamiamoli così, per capirci - del
tutto inaffidabili.
Le sconcertanti decisioni di qualche tribunale sulla assimilabilità di una
e-mail ad una scrittura privata (mai motivate perché assunte in sede monitoria),
e le per nulla convincenti argomentazioni portate da qualcuno per sostenere i
grandi e presunti vantaggi che sarebbero potuti derivare da quella norma (l'ex
art. 10 co. 2 DPR 445/00) e dalla estensiva interpretazione della stessa,
dunque, non possono che esser considerati come posizioni assolutamente
minoritarie.
Altro che: "si ritiene"!
Ed allora se vogliamo provare a capire, ed a far capire, quale sia lo stadio
di sviluppo del percorso normativo ed esegetico in cui si colloca il Codice,
credo che possiamo essere quasi tutti d'accordo nell'affermare che
la opzione normativa di associare al documento informatico sottoscritto con
firma elettronica il requisito della forma scritta, era una scelta ritenuta dai
più tecnicamente, giuridicamente e strategicamente sbagliata;
più che opportuna, pertanto, deve esser considerata la nuova disposizione
contenuta nell'art. 20 co. 2 del Codice (già art. 17 dello schema approvato
il 04.03.05) che, facendo giustizia di quella aberrazione, ha riportato la
disciplina della forma del documento informatico entro i giusti confini
tratteggiati dal legislatore del 1997, attribuendo la forma scritta solo e
soltanto al documento informatico sottoscritto con firma digitale (o con altra
tipologia di firma elettronica qualificata).
Ciò dovrebbe mettere a tacere definitivamente, senza strani rigurgiti, i fans
dell'acquisto di un immobile tramite scambio di e-mail (esito forse mai troppo
ponderato dai fautori della tesi qui avversata, evidentemente intangibili al
timore che il loro peggior nemico si doti di una casella di posta elettronica a
loro nome, per poi trasmettere una perfettamente valida proposta d'acquisto di
un appartamento del valore di un milione di euro che, una volta accettata anche
nella stessa forma, avrebbe comportato, a norma del vecchio art. 10 DPR 445/00,
il trasferimento della proprietà dell'immobile ed il conseguente ...obbligo
di pagare un milione di euro, obbligo da far valere magari presentando un
ricorso per decreto ingiuntivo avanti l'Autorità giudiziaria di Cuneo!).
Questo per quanto attiene alla forma.
Passiamo poi all'altra affermazione, quella più di impatto, secondo la
quale la disciplina introdotta dal Codice all'art. 21 (già art. 18 dello
schema approvato il 04.03.05) comporterebbe un "indebolimento" della firma
digitale.
Come sappiamo, la norma segna il ritorno alla disciplina antecedente al
maledettissimo DLgs 10/02, e toglie di mezzo ogni riferimento alla querela di
falso, conformandosi quindi al vero spirito della norma madre di tutta la
disciplina (l'art. 15 co. 2 della L. 59/97) che aveva previsto semplicemente
la validità e rilevanza dei documenti formati con strumenti informatici, e
dunque la mera equiparazione, e non... super-dotazione, del documento
informatico rispetto alla scrittura privata tradizionale.
Anche sotto questo profilo, è sufficiente ripercorrere le argomentazioni che
avevano evidenziato la illegittimità costituzionale e la inopportunità della
creazione di questo fantomatico istituto della "scrittura privata informatica"
(vedi Un messaggio e-mail non è "prova scritta"
di Manlio Cammarata e Enrico Maccarone, Il magistrato: scritto e
trascritto, ma non sottoscritto di Gianni Buonomo e il mio Gli effetti probatori del
documento informatico) , per attestare come le novità del Codice,
invece che esser accompagnate da una informazione sostanzialmente catastrofista,
andrebbero salutate come il ritorno della disciplina in un perimetro di
correttezza istituzionale e di giusto bilanciamento degli interessi in gioco.
Il messaggio da lanciare sugli organi di divulgazione insomma, non è e non
deve essere, a mio parere, che la firma digitale si è indebolita, quanto
piuttosto che la firma digitale ha finalmente ritrovato se stessa.
Colgo infine l'occasione per alcune riflessioni sull'altra grande
innovazione contenuta nel Codice, e cioè a dire l'ultimo capoverso dell'art.
21 co. 2, secondo il quale "l'utilizzo del dispositivo di firma si
presume rinconducibile al titolare, salvo che sia data prova contraria", norma
già foriera di un interessantissimo ed appassionante dibattito (vedi E' utile la presunzione di utilizzo del dispositivo di firma
di Luigi Neirotti, Il disconoscimento della
firma tra "diritto" e "fatto" di Manlio Cammarata e Effetti probatori: si torna
ai principi del processo civile di Gianni Buonomo).
Si tratta, come unanimemente scritto, di un correttivo inteso a mitigare gli
effetti di un puro e semplice recepimento in ambito virtuale della disciplina
dettata dall'art. 2702 c.c. per il mondo fisico.
La logica, in sintesi, è questa: di fronte al disconoscimento della
paternità della sottoscrizione, non possiamo onerare colui che intende far
valere in giudizio il documento sottoscritto con firma digitale di una prova
impossibile, consistente nel fatto che il sottoscrittore sia colui che ha
effettivamente utilizzato il dispositivo di firma; se è vero, come lo è, che
nel giudizio di verificazione gli oneri probatori incombono su chi intende far
valere il documento in giudizio, costui non potrà esser gravato della probatio
diabolica circa il materiale utilizzo del dispositivo di firma da parte di
chi appare come il sottoscrittore e che, ciò nonostante, stia tentando di
ciurlare nel manico, opponendo uno strumentale disconoscimento (vedi il già
citato articolo di Neirotti).
Ecco da dove nasce l'idea, quindi, di creare una presunzione di utilizzo
del dispositivo che ponga l'apparente sottoscrittore in una posizione
volutamente più scomoda, non potendosi lo stesso limitare a disconoscere la
sottoscrizione, ma essendo tenuto a corredare il disconoscimento con una prova
positiva relativa al fatto che il dispositivo sia stato utilizzato da altri, e
non da lui, così da spezzare il legame che lo astringe alla scrittura.
Ora, se questa è la genesi della norma, mi sembra di poter dire che, per una
serie di motivi, la stessa presenti delle tare logiche, ancor prima che
giuridiche, che la rendono sotto un certo punto di vista inutile, e sotto altra
prospettiva incoerente con il quadro normativo nel quale si va a collocare.
Mi spiego meglio, partendo da un assunto di fondo: siamo tutti d'accordo
sul fatto che, dal punto di vista tecnico, non sia possibile dimostrare che il
documento informatico sottoscritto mediante utilizzo di un dispositivo di firma
rilasciato a Caio sia stato invece sottoscritto con il dispositivo di firma di
Tizio. La partita dell'accertamento, dunque, si gioca su altri piani, uno dei
quali (ma non l'unico) è quello della prova dell'abusivo utilizzo da parte
di un terzo del dispositivo di firma di Caio.
Ciò detto, proviamo per un attimo a fare finta che l'art. 21 si chiuda sic
et simpliciter con il richiamo all'art. 2702 c.c.(che non esista, cioè, l'inciso
in commento). Cosa accade realmente davanti ad un tribunale?
Io che produco un documento sottoscritto con firma digitale di Caio, a fronte
del suo disconoscimento, devo proporre una istanza di verificazione, ed
incomberà su di me l'onere probatorio. Ma qual è l'oggetto di questo
onere? Dovrò certamente dimostrare che la chiave pubblica rilasciata a Caio
corrisponde alla chiave privata assegnatagli dal certificatore che lo ha
identificato. Devo fare altro? A mio parere assolutamente no! Non capisco,
infatti, su quale argomento tecnico-giuridico possa fondare la diversa tesi,
secondo la quale sarei anche onerato di dimostrare che è stato proprio Caio ad
utilizzare il dispositivo di firma.
A ben vedere infatti, a mio modestissimo avviso, questa tesi più che su
rigorosi presupposti processuali appoggia su una preoccupazione sostanziale, e
cioè evitare che Caio, in applicazione dell'art. 2702 c.c. nei termini
indicati, dopo aver opposto un disconoscimento e dopo esser stato tirato dentro
un giudizio incidentale di verificazione, possa ritrovarsi privo di armi di
fronte all'accertamento, tutto tecnico, della corrispondenza tra chiave
pubblica e chiave privata.
Ma, domando, siamo sicuri che la dinamica sia questa? Che cioè, accertata la
corrispondenza tecnica tra chiave pubblica e chiave privata, Caio non abbia
strumenti per far virare in suo favore il processo? In realtà, se si esamina
con attenzione l'oggetto del giudizio di verificazione, deve tenersi in debito
conto il fatto che il sottoscrittore apparente (nel nostro caso Caio) non
partecipa all'istruttoria come se fosse un convitato di pietra. Il fatto che l'onere
della prova non incombe su di lui, cioè, non significa che gli sia inibita l'attività
difensiva. Ben può Caio, dunque, pur non essendo astretto da alcun onere
probatorio, articolare sue deduzioni istruttorie, intese a fornire una prova che
lo sleghi dal documento. E ben può dunque, ad esempio, chiedere di essere
ammesso a dimostrare l'abusivo utilizzo del suo dispositivo di firma, prova di
fronte alla quale il giudice che sia chiamato a definire il processo di
verificazione, pur in presenza della dimostrazione della corrispondenza tra
chiave pubblica e chiave privata, potrà dichiarare che in realtà il
disconoscimento di Caio era fondato.
Ed allora, se così stanno le cose, a cosa serve l'inversione dell'onere
probatorio sulla riconducibilità dell'utilizzo del dispositivo al
sottoscrittore? La mia risposta è: non serve a nulla, perché le regole
processuali già contemplano gli strumenti che mettono il sottoscrittore in
condizione di uscire vittorioso dal giudizio di verificazione, e ciò pur in
presenza di un accertamento tecnico relativo al fatto che quel documento sia
stato sottoscritto mediante utilizzo (abusivo) del suo dispositivo di firma.
Ma, dicevo, la norma non mi sembra solo inutile per i motivi anzidetti,
bensì anche incoerente con il quadro di riferimento. Ecco il perché:
a) se si è scelto (come era auspicabile) il superamento dell'art. 10 DPR
445/00 ("piena prova fino a querela di falso"), a tanto si è arrivati non
solo per i gravosi appesantimenti che il giudizio di falso porta con sé
(riserva di collegialità, intervento del PM etc.), ma anche, andando alla
sostanza dell'attività istruttoria, per evitare di far ricadere ogni onere
probatorio su chi utilizza la firma digitale. Prevedere la presunzione di
utilizzo del dispositivo di firma, ed onerare il sottoscrittore della prova dell'abusivo
utilizzo (con l'automatico accertamento, in mancanza, della riconducibilità
dell'utilizzo al titolare del certificato) fa rientrare dalla finestra quanto
il legislatore aveva opportunamente espulso dalla porta;
b) a norma dell'art. 31 del Codice (già art. 29 dello schema approvato il
04.03.05) il titolare del certificato di firma è tenuto a custodire ed
utilizzare il dispositivo di firma con la diligenza del buon padre di famiglia.
Evidente, sotto questo punto di vista, la distonia tra una forma-base di
diligenza nella custodia, e gli effetti pesantissimi connessi alla presunzione
di utilizzo
A ciò si aggiunga un problematico rapporto con la legge delega. Se è vero,
infatti, che l'art. 10 L. 229/03 contemplava un criterio di delega
assolutamente obliquo (incaricando il Governo di "graduare la rilevanza
giuridica e l'efficacia probatoria dei diversi tipi di firma elettronica"),
dall'altro lato non si può a mio parere dimenticare l'architrave sul quale
fonda tutto l'impianto normativo, che è quello, lo ripeto, della "equiparazione"
tra documento informatico e scrittura privata (art. 15 L. 59/97), equiparazione
che viene vistosamente meno in presenza di una presunzione sconosciuta alle
vigenti disposizioni del codice civile e del codice di procedura civile.
Come è noto, la partita non è affatto chiusa qui. La stessa legge delega
prevede, all'art. 10 co. 3, la possibilità che il Governo intervenga
ulteriormente sulla materia entro 12 mesi (termine che decorre dal 09.03.05 -
18 mesi dopo l'entrata in vigore della delega - e che viene dunque a scadenza
nel marzo del 2006).
C'è dunque tempo per ulteriori, e forse opportuni ripensamenti.
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