Qualche ipotesi di lavoro per la
commissione open source
di Andrea Monti - 28.11.02 - Per gentile concessione di Linux & C.
Dopo più di tre anni dalla presentazione al Forum per la società dell'informazione
presso la Presidenza del consiglio del documento E'
compito delle istituzioni liberarci dalla schiavitù elettronica e all'indomani
del discutibile ddl Cortiana, e delle altre
sconnesse "uscite" dell'opposizione è il momento del Governo di
cimentarsi sul tema "open source e PA".
La risposta alle ripetute istanze della società civile arriva sotto forma
dell'istituzione di una commissione "per l'open source" della
quale, come è noto, si conosce il nome del solo presidente (peraltro, una
scelta di valore: il prof. Angelo Raffaele Meo). Mentre non si conoscono l'identità
degli altri componenti e il funzionamento della neoistituita struttura, il che
- detto per inciso - non mi sembra nemmeno sbagliatissimo. Visto il tema
delicato, open source e PA, è facile immaginare che i componenti di questa
commissione saranno bersagliati dalle azioni dei lobbisti più agguerriti. Una
volta tanto, dunque, un po' di anonimato potrebbe non guastare.
Questa legittima esigenza, però, non dovrebbe far venire meno la trasparenza
nell'operato degli esperti. Sarebbe veramente un caso di triste umorismo
involontario vedere una commissione per l'open source che tiene
"chiuse" le informazioni che la riguardano.
Boutade a parte, tuttavia, la considerazione non è banale perché
riguarda il modello (che si potrebbe definire, appunto "aperto") di
partecipazione al processo di formazione delle leggi e dell'indirizzo politico
che uno Stato dovrebbe o potrebbe darsi. Ovviamente non sto vagheggiando
improbabili (e pericolose) forme di democrazia diretta ma, più semplicemente,
ipotizzo uno scenario nel quale - su questioni molto tecniche - le
istituzioni possano accedere al notevole patrimonio di conoscenza disponibile
(gratis) sul territorio acquisendo informazioni e punti di vista che
diversamente non avrebbero avuto o avrebbero dovuto pagare a caro prezzo. E che
non si tratti di speculazioni teoriche lo ha dimostrato la pregevole iniziativa
dell'AIPA, che all'epoca delle normazione sulla firma digitale aprì delle
vere e proprie consultazioni pubbliche per raccogliere l'opinione della
comunità degli esperti.
Bene, questa commissione per l'open source potrebbe rappresentare un vero e
proprio "laboratorio" per approfondire un metodo di lavoro già
timidamente applicato in passato. Il primo auspicio, dunque, è che la
commissione non lavori con quell'approccio arrogantemente esclusivo che sta
caratterizzando altre importanti riforme. Come il recepimento delle direttive
sul commercio elettronico e sul diritto d'autore (sui cui problemi vedi Provider e responsabilità nella legge comunitaria
2001).
Venendo al merito, è interessante notare che la neonata struttura non si
occuperà (per lo meno, non solo) di free software, stabilendo un
importante presa di posizione nei confronti degli estremismi della Church of
Emacs. Vista la provenienza professionale del Ministro Stanca e la
"storia" del prof. Meo è, infatti, difficile pensare che il
riferimento contenuto nel comunicato stampa al solo open source (mentre non si
parla di free software) sia frutto di una svista o di una confusione
semantica che usa fungibilmente i due concetti. Si tratta, credo e spero, di un
segnale importante anche per il mercato del software. Che oltre alla GPL potrà
interagire con la PA tramite altri modelli di licensing più elastici. E'
noto infatti che - in parte per ignoranza dei potenziali utilizzatori
professionali, in parte per l'integralismo del movimento del free software
- la GPL sia guardata con sospetto e diffidenza dalle aziende che temono, in
gran parte senza ragione, di perdere la proprietà intellettuale di quanto
rilascerebbero sotto una certa licenza. Non è un caso, infatti, che gli
attacchi frontali di Microsoft non abbiano riguardato in generale il modello
open source ma siano stati diretti massicciamente proprio contro la licenza GNU.
Riferendosi, dunque, al concetto più ampio di open source il provvedimento
del ministro Stanca sembra voler dare un segnale forte al mercato di chi
fornisce software agli enti dello Stato. Quello che, immagino, verrà chiesto a
chi "vende" software alla PA non sarà, semplicemente, "muovere
scatole" di provenienza incerta. Ma una precisa assunzione di
responsabilità sul funzionamento delle applicazioni, sulla capacità di offrire
un reale servizio (dall'assistenza alla "personalizzazione") e sul
dovere di assumersi reali responsabilità.
A tal proposito sarebbe interessante che la commissione aprisse un'indagine
conoscitiva sull'impatto, in Italia, delle affermazioni recentemente salite
agli onori della cronaca di un alto grado di Microsoft, Craig Mundie che avrebbe
insistito sul fatto - scrive la testata Punto
Informatico - "che è impossibile rendere sicuri prodotti che per
loro stessa natura non lo sono, come Windows 9x e altri vecchi prodotti di
Microsoft.". Dunque, per anni, Microsoft avrebbe venduto alla PA italiana
(mi limito ai nostri confini) dei prodotti intrinsecamente insicuri. Esponendo
così a grave pericolo non solo le infrastrutture di comunicazione del nostro
paese, ma pure creando inefficienze indirette derivanti dalle conseguenze della
diffusione di virus, blocchi di sistemi e quant'altro.
Sul versante dell'istruzione, poi, sarebbe opportuno fare chiarezza sulla
famigerata ECDL (o, all'italiana, patente europea del computer), curiosare nei
criteri con i quali viene rilasciata e specificare il valore giuridico (reale o
preteso) di questo "pezzo di carta". Sotto il primo profilo, infatti,
è evidente che questa certificazione privata, seppur formalmente
"svincolata" da piattaforme o applicazioni specifici, di fatto è
rilasciata nella stragrande maggioranza dei casi solo a chi sa utilizzare
prodotti Microsoft. E, detto per inciso, è curioso che l'Associazione
italiana per il calcolo automatico (AICA), l'artefice della ECDL, da un lato
promuova l'open source, e dall'altro abbia messo su un sistema che in
pratica istituzionalizza il monopolio Microsoft.
Come se non bastasse, la situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che
il possesso della ECDL comincia a "fare titolo" per l'ammissione in
scuole o addirittura (ma spero di sbagliarmi) in enti pubblici. E evidente, a
questo punto, che i conti non tornano. Si stanno creando generazioni di
analfabeti funzionali asserviti all'uso acritico di una sola piattaforma.
Utenti che utilizzano già dei sistemi senza alcuna consapevolezza di ciò che
stanno facendo. E così, quando il correttore ortografico dirà che la parola
"democrazia" non è presente nel vocabolario, senza farsi domande
smetteranno semplicemente di usarla. E di pensarla.
Così come non tornano i conti sulla didattica dell'informatica nelle
scuole secondarie, dove l'insegnamento della materia avviene per funzioni e
non per funzionalità (i discenti, in altri termini, non imparano che un
software di posta elettronica è dotato di un account, di un SMTP, di un POP3,
delle funzionalità di Carbon Copy ecc., ma semplicemente che un certo programma
invia posta facendo clic su quel menù, poi formatta il messaggio premendo un
altro bottone e così via). Con conseguenze facili da immaginare.
Colpa degli studenti, forse, ma di certo responsabilità degli insegnanti, che
sono spesso privi di una prospettiva culturale nella didattica dell'informatica
o nell'uso dell'informatica per la didattica.
Per non parlare di quanto accade sul versante giudiziario, dove gli
accertamenti tecnici sulle evidenze informatiche vengono compiuti con software
proprietari (uno per tutti, Encase), il cui funzionamento interno è ignoto agli stessi
operatori (come attestano le dichiarazioni rilasciate pubblicamente da esponenti
delle forze di polizia nel corso di interrogatori condotti recentemente in
processi penali). Abbandonando, di fatto, elementi fondamentali per decidere
della libertà personale ad un trattamento dei dati automatizzato e non
verificabile da alcuno.
Se volessimo limitare l'ambito di lavoro della commissione anche solo ai
temi accennati in questo articolo ci sarebbe da far perdere il sonno a più di
un'azienda e alle schiere di lobbisti (inteso il termine nel significato più
ampio) assunte per ronzare come mosconi attorno a politici e opinion leader.
Aziende che potrebbero, finalmente, essere chiamate a rispondere delle loro
azioni. Purtroppo, però, c'è una seria probabilità che anche questa volta
la facciano franca. In tre mesi - questo è il ciclo di vita previsto per la
conclusione dei lavori - i componenti della commissione faranno a malapena in
tempo a guardarsi in faccia e a scambiarsi numeri di cellulare e mail personali.
Ed è molto reale il pericolo di ritrovarsi, come ne "Il Gattopardo",
a dover constatare che è cambiato tutto per non cambiare nulla. |