Manca un semestre prima che il GDPR (reg. UE 2016/679) trovi
pratica applicazione ma il numero e l’autorevolezza dei suoi commentatori, gli
snodi problematici su cui si è appuntata la riflessione degli operatori
pratici, alcuni interventi dell’Autorità garante e del Legislatore, ci
consentono di formulare dei primi giudizi e qualche previsione.
Sia consentito innanzitutto distinguere la nostra voce dal
coro dei laudatores che dipingono la disciplina in esso contenuta come
fortemente innovativa.
La direttiva 95/46/CE (in continuità con quanto prevedeva la
Convenzione del 28 gennaio 1981 del Consiglio d’Europa, citata nel suo
considerando 11) assumeva che la libera circolazione delle merci, delle persone,
dei servizi e dei capitali, così come i progressi registrati dalle tecnologie
dell’informazione, avrebbero aumentato i flussi transfrontalieri dei dati
(considerando 5). Si proponeva, quindi, di armonizzare le discipline privacy dei
paesi membri, affinché la loro diversità non rappresentasse una barriera al
libero scambio.
Il fatto stesso che, a distanza di oltre vent’anni, si sia
scelto di riformare la materia attraverso un regolamento (fonte che, a
differenza della direttiva, non necessita della mediazione dei singoli Stati, ma
si impone direttamente nei loro ordinamenti) prova che la desiderata
uniformazione non si sia compiutamente raggiunta, il che è del resto ammesso
nel considerando 9 dello stesso GDPR.
Il Regolamento avrà maggiori possibilità di successo? Pare
lecito avanzare dei dubbi, su cui torneremo a breve.
Secondo alcuni Autori il Regolamento attuerebbe un netto
cambio di prospettiva, dal momento che verrebbe finalmente riconosciuto un
"diritto alla protezione dei dati di carattere personale"
(considerando n. 1) quale "diritto fondamentale" a tutti i cittadini
europei.
Anche questa enfasi mi pare eccessiva.
Innanzitutto perché il Regolamento ha sul punto una portata
solo ricognitiva dellaCarta di Nizza, proclamata il 7 dicembre 2000 e
nuovamente proclamata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, a cui è stato
attribuito il medesimo valore giuridico dei trattati dal Trattato di Lisbona del
13 dicembre 2007) in cui convergono le tutele predisposte dall’art. 7,
rispetto della vita privata e familiare, e dall’art. 8, protezione dei dati di
carattere personale (profili sempre più compenetrati, secondo la giurisprudenza
della Corte di Giustizia).
Ma soprattutto perché, come già la Direttiva, anche il GDPR
è molto chiaro nel suo considerando 4 laddove specifica che "il diritto
alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta,
ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con
altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità".
Anche il Regolamento, quindi, riconosce l’esistenza di
interessi pubblici confliggenti (cfr. ad es. considerando 16 e 19) e la
necessità di operare un bilanciamento, entro degli spazi in cui si
concretizzano le scelte politiche nazionali (cfr. art. 2, comma 2 GDPR). Questa
la ragione per cui permangono nel testo del Regolamento frequenti rinvii al
diritto degli Stati membri (si vedano, e senza pretese di esaustività, i
considerando 8, 10, 19, 121, 129, 142, 146, 152, 153, 154, 155, 163 e gli artt.
6, 8, 9, 14, 15, 28, 29, 32, 36, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 49, 53, 54, 62, 80,
85).
A tacer d’altro l’inasprimento delle sanzioni (che ai
sensi degli artt. 83 e 84 dovranno essere effettive, proporzionate e
dissuasive), la previsione della figura del Responsabile della protezione dei
dati (artt. 37 e ss.), l’esplicitazione dei principi di accountability
(considerando 57 e art. 5 c. 2), di protezione dei dati fin dalla progettazione
e per impostazione predefinita (rectius il principio di minimizzazione,
come ho chiarito in un precedente contributo in questo Forum) hanno ridestato l’interesse
delle imprese, sensibilizzate al riconoscimento di questi diritti ai cittadini
europei in quanto tali (a prescindere dalla nazionalità o dalla residenza).
È prevedibile che ciò faciliterà
la circolazione dei dati in ambito sovranazionale, ma è lecito dubitare che
si raggiungerà, anche tramite il Regolamento, il traguardo di una disciplina
davvero uniforme e ciò nonostante il ruolo sempre più forte che sono chiamate
a svolgere le Autorità garanti, il Gruppo di lavoro ex articolo 29 (della
direttiva 95/46/CE), il Garante Europeo della protezione dei dati e nonostante l’attività
degli Organismi di certificazione di cui all’art. 43 del GDPR e la redazione
dei codici di condotta di cui all’art. 40 GDPR.
Ostacola il raggiungimento di questi obiettivi il dato
letterale del GDPR che risulta assai farraginoso, ripetitivo e talvolta oscuro
(problema a cui si aggiunge la complessa traduzione in lingua italiana di alcuni
sintagmi che complica l’attività dell’interprete), tanto che sono sorti
dubbi persino in ordine alla sua sfera applicativa.
Per esigenze di spazio si indicano solo alcuni esempi.
Oggetto di tutela da parte del GDPR sono i dati delle persone
fisiche (considerando 14, artt. 1 e 2) salvo che siano trattati da "una
persona fisica per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente
personale o domestico" (cfr. il poco chiaro considerando 18 e l’art. 2,
comma 2, lett. c); non i dati delle persone giuridiche per cui valgono logiche
diverse (e a cui è dedicata ad es. la direttiva 2016/943 del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell'8 giugno 2016 sulla protezione del know-how
riservato e delle informazioni commerciali riservate/segreti commerciali contro
l'acquisizione, l'utilizzo e la divulgazione illeciti).
Alcuni Autori propendono per un’interpretazione
restrittiva, che fa in sostanza coincidere la definizione di "persona
fisica" con quella di "consumatore". Si ritengono così esclusi
dalla tutela i dati delle persone fisiche imprenditori individuali (ma potrebbe
estendersi il ragionamento ai liberi professionisti ex art. 2238 c.c.,
imprenditori non sono, alle imprese familiari ex art. 230-bis c.c., ai titolari
di partita iva in genere).
Tale lettura non mi pare condivisibile, per la
considerazione, invero banale, che l’imprenditore individuale prima di
divenire tale è una persona fisica, per cui valgono le medesime esigenze di
tutela di coloro che non svolgono attività d’impresa, essendo ad entrambi
applicabili gli artt. 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea.
Ma questa considerazione non esaurisce i problemi
interpretativi: laddove l’attività economica venga svolta dall’imprenditore
individuale, dalla impresa familiare, dal libero professionista nei medesimi
locali ove la persona fisica risiede, alcuni dati (come ad es. l’indirizzo
della sede legale dell’impresa, il nome del titolare) non potranno rimanere
riservati. L’attenzione dovrà essere quindi posta più sui dati che sui
soggetti. E del resto lo stesso Garante per la protezione dei dati personali con
il provvedimento 20 settembre 2012 n. 262 si interrogava sull’interpretazione
da darsi alle modifiche apportate dalla legge 22 dicembre 2011 n. 214 al codice
in materia di protezione dei dati personali (d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196), dal
momento che persino l’esclusione dei dati delle persone giuridiche, introdotta
nel 2011, aveva segnato un’inversione di tendenza del legislatore nazionale
che aveva lasciato insoddisfatti.
Un altro tema che ha acceso il dibattito attiene ai dati dei
defunti, che il considerando 27 del GDPR esclude dal campo di applicazione. La
scelta appare formalmente coerente con la volontà di attribuire tutela alla
persona fisica, dal momento che, com’è ovvio, con la morte, essa viene meno.
Sennonché alcuni legislatori nazionali, come ad esempio quello italiano, si
sono spinti da tempo oltre.
Già l’art. 13, comma 3 della legge L. 31/12/1996, n. 675
consentiva l’esercizio dei diritti del defunto da parte di chi dimostrasse
interesse. L’art. 9, comma 3 del Codice privacy ha adottato una formulazione
ancor più esaustiva, prevedendo la legittimazione a "chi ha un interesse
proprio, o agisce a tutela dell'interessato o per ragioni familiari meritevoli
di protezione".
Ebbene, atteso che il GDPR, anche su questo tema, rinvia alle
scelte dei legislatori nazionali, si auspica che questa apertura permanga: che
il Regolamento non segni cioè un arretramento delle tutele.
Altri articoli del GDPR, che (questi sì) hanno introdotto
delle importanti innovazioni, necessitano di disposizioni attuative. Mi
riferisco in particolare:
- alla pseudonimizzazione dei dati (considerando 26 e art. 4 GDPR), che
risulta centrale, ex art. 6 u.c. lett. e) del GDPR, per considerare lecito
il trattamento dei big data per finalità diverse da quelle per cui
è stato raccolto il consenso (in assenza di una norma di copertura);
- al diritto alla portabilità (considerando 68 e art. 20 GDPR), dal
momento che occorrerà fare chiarezza su cosa si intenda per "formato
strutturato, di uso comune e leggibile" e in quali casi potrà
ritenersi "non tecnicamente fattibile" la trasmissione diretta
da un titolare di trattamento all’altro;
- al diritto di opposizione ad un processo decisionale automatizzato (art.
21 e ss. GDPR) poiché, in tanto potrà esservi vero consenso, in tanto
avrà senso richiedere l’intervento umano, si potrà esprimere la
propria opinione e contestare la decisione, in quanto venga rivelato all’interessato
l’algoritmo in funzione del quale la decisione automatica viene operata:
è facile preconizzare che tale ostensione, in difetto di una previsione
normativa esplicita, ben difficilmente troverà attuazione.
Un utile approfondimento di questi aspetti potrebbe giungere
anche dalla pubblicazione del regolamento europeo e-privacy che dovrebbe
abrogare la direttiva 2002/58/CE del 12 luglio 2002 relativa al trattamento dei
dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni
elettroniche. Questo regolamento è atteso, secondo quanto riferisce il Garante
europeo, entro il mese di maggio 2018.
Nel frattempo gli interventi del legislatore nazionale, non
offrono chiarimenti su questi temi, ma destano ulteriori perplessità.
Con l’art. 13 della legge 25 ottobre 2017 n. 163 (legge di
delegazione europea 2016/2017), il Governo è stato delegato ad adottare entro
sei mesi dal 21 novembre 2017, uno o più decreti delegati legislativi per
adeguare la disciplina della privacy interna con la direttiva. In considerazione
del fatto che, come è noto, le sorti del Governo Gentiloni sono in bilico,
rappresenterebbe un buon risultato riuscire ad esercitare tempestivamente la
delega ricevuta. Ritengo in altre parole remota l’eventualità che gli
operatori pratici ricevano indicazioni in tempo utile rispetto al termine del 25
maggio 2018 in cui diverrà applicabile il GDPR. Questo termine non sarà
certamente prorogato e quindi possiamo al più attenderci che il Garante
diluisca nel tempo le attività ispettive più invasive o quanto meno mitighi le
sanzioni comminate in relazione alla "novità" della disciplina.
Ma, mentre fervono gli sforzi delle imprese per adeguare i
propri sistemi informativi al GDPR, in un’ottica di minimizzazione, il
legislatore con la legge 20/11/2017, n. 167, Legge europea 2017, "al fine
di garantire strumenti di indagine efficace in considerazione delle
straordinarie esigenze di contrasto al terrorismo, anche internazionale",
ha innalzato il termine di conservazione dei dati di traffico telefonico e
telematico nonché dei dati relativi alle chiamate senza risposte da
rispettivamente due anni, un anno e trenta giorni (art. 132 codice della
privacy) a ben 72 mesi!
In sede applicativa immaginiamo che susciti importanti
riflessioni, da ultimo, il tema della notifica delle violazioni dei dati
personali all’autorità di controllo ex art. 33 GDPR.
Contrariamente a quanto è stato sostenuto da alcuni Autori,
la formulazione dell’art. 33 è chiara. Si dovrà inviare una tempestiva
notificazione al ricorrere di entrambe le condizioni: a) che si verifichi una
certa "violazione dei dati personali"; b) che la violazione (certa)
renda "non improbabile" la sottoposizione a rischio dei "diritti
e delle libertà delle persone fisiche". In altre parole in caso di incerta
data breach non sarà dovuta la notificazione. Essa non sarà dovuta
nemmeno nel caso in cui possano razionalmente escludersi rischi per i diritti e
le libertà delle persone fisiche.
Sennonché il codice della privacy italiano punisce all’art.
168, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da sei
mesi a tre anni (inter alia) la falsità nelle comunicazioni di cui all’art.
32-bis, commi 1 e 8, ovvero la notificazione della violazione dei dati.
Giacché la legge 163/2017 delega il Governo anche all’aggiornamento
delle sanzioni, è possibile, ed anzi probabile, che venga mantenuta la scelta
della comminatoria di reato. Se così fosse, occorrerebbe prestare ossequio al
divieto di autoincriminazione (nemo tenetur se detegere), principio
basilare del processo penale, di cui sono espressione fra gli altri gli artt. 63
comma 1, 191 comma 1 e 198 comma 2 c.p.p. e l’art. 384, comma 2 c.p., ma che,
seppure con diverse sfumature, si ritiene ben presente nelle fonti europee, come
corollario del principio del giusto processo e del giusto procedimento.
* Professore a contratto di
Informatica giuridica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano.
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