Il prossimo 22 dicembre, La Costituzione
della Repubblica Italiana compie 70 anni.
Quando, nel giugno 1946 i Padri Costituenti iniziarono a redigerne il testo,
venivano da vent’anni di regime fascista con tutto il corollario di arresti
arbitrari, spedizioni squadristiche e censura della stampa, della
corrispondenza, delle comunicazioni telefoniche, per non parlare del controllo
del territorio attuato a partire dai responsabili di edificio, i portieri.
Non stupisce quindi che la parte prima della Carta Costituzionale esordisca
con l’articolo 13 "la liberta personale è inviolabile",
prosegua al 14 con "Il domicilio è inviolabile" e all’articolo
15 affermi testualmente:
"La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni
altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro
limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria
con le garanzie stabilite dalla legge."
Nel 1946 nessuno poteva immaginare che - quarant’anni - dopo Internet
avrebbe stravolto il classico paradigma del "diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione" garantito dall’articolo 21 e mediato dalla responsabilità
del direttore di una testata giornalistica, radiofonica o televisiva,
semplicemente perché chiunque dispone di uno Smartphone può comunicare
direttamente con chiunque altro al mondo, così come garantito dall’articolo
15.
Fino ad ora, nei numerosi tentativi di aggiornare la Carta Costituzionale
succedutisi con alterna fortuna a partire dal 1983, nessuna Bicamerale o
proposta di iniziativa parlamentare ha mai avuto il coraggio di rimettere in
discussione i diritti fondamentali, tra cui quello di libertà e segretezza di
ogni forma di comunicazione garantito dall’articolo 15.
Senonché nella pratica, a partire dal 2006, alcune Autorità Amministrative,
a valle di specifici provvedimenti legislativi (Monopoli di sStato, AGCom) o
addirittura senza alcuna delega specifica (AGCM) si sono sostitute all’autorità
giudiziaria nel disporre "sequestri" di questo o quel
sito.
Peccato che con buona pace del legislatore e delle Autorità amministrative
che hanno approvato i pertinenti regolamenti attuativi, le richieste che queste
inviano ai fornitori di servizi di accesso ad Internet siano non già di
sequestro (operazione che il più delle volte richiederebbe una lunga, costosa e
probabilmente inutile rogatoria internazionale), ma più semplicemente quella di
precludere ai propri clienti di accesso il diritto di comunicare con quello
specifico sito.
Il tutto SENZA "atto motivato dell'autorità giudiziaria" e
cioè in plateale violazione dell’articolo 15 della Carta. Con la
giustificazione, tipica in particolare in sede di tutela del diritti di
proprietà intellettuale, che l’intervento dell’Autorità Giudiziaria
richiede tempi troppo lunghi.
Il tema è di particolare attualità perché in sede di redazione del
regolamento sulla protezione del diritto di autore e connessi, AGCom ha fatta
sua una faticosa mediazione fra la tutela della proprietà intellettuale e la
violazione del precetto costituzionale. Il Regolamento AGCom prescrive infatti
che, su indicazione dell’Autorità, i fornitori di accesso ad Internet
"avvelenino" il servizio DNS in modo tale che quando il cliente digita
l’indirizzo simbolico di un "sito pirata" in luogo dell’indirizzo
IP di del sito, il DNS del fornitore di accesso trasmetta quello di una "Landing
Page" che indica al cliente che la pagina è stata oscurata su disposizione
di AGCom.
In questo modo viene interrotto il servizio DNS, ma non la comunicazione con
la pagina sottoposta a blocco perché se l’utente finale conosce l’indirizzo
IP della pagina può comunque raggiungerla.
Il problema è che questa soluzione di compromesso non piace ai titolari dei
diritti i quali lamentano che un utente scaltro può utilizzare un DNS
(tipicamente quello di Google) al di fuori della giurisdizione italiana e
sollecitano di conseguenza un inasprimento del regolamento che, in plateale
violazione dell’articolo 15 della Carta, ne estenda l’applicazione al blocco
dell’IP.
Ora, delle due l’una: o diciamo chiaro e tondo che la
disintermediazione di internet ha reso obsoleto, inapplicabile, pericoloso, etc.
l’articolo 15 e lo cambiamo abbracciando con entusiasmo il ricorso ad una
forma di censura tipica dei regimi totalitari, oppure dobbiamo batterci con
convinzione contro ogni atto legislativo o regolamentare che leda direttamente o
indirettamente "La libertà e la segretezza di ogni forma di
comunicazione".
Ciò detto, una di breve considerazione sul GPDR: tanto è moderna e
corrispondente alla realtà la definizione di Processor (con il suo corollario
di obbligazioni) quanto farisaica l’esclusione dei trattamenti a carattere
personale o domestico:
"Articolo 2
Ambito di applicazione materiale
……
2. Il presente regolamento non si applica ai trattamenti di dati
personali:
…………..
c) effettuati da una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere
esclusivamente personale o domestico;
…………"
Considerati i dilemmi nati nel 1996 circa l’applicazione della 675 alle
nostre agende personali, questo chiarimento è certamente benvenuto.
Senonché la prima cosa che Skype o What’s Up o qualsiasi altro messenger
chiedono in sede di prima utilizzazione è di accedere alla rubrica del nuovo
utente in modo da poterlo mettere in relazione con tutti i suoi abituali
corrispondenti sulla piattaforma. I quali riceveranno immediata notifica
di poterlo finalmente "messaggiare" direttamente senza buttare soldi
in SMS o telefonate.
Chi ha ormai bisogno di what’s up perché diversi suoi corrispondenti
abituali usa preferibilmente what’s up, ma volesse evitare di rimanere
sopraffatto da una miriade di video, foto e messaggini di corrispondenti un po’
meno abituale, potrebbe pensare che l’unico sistema se per difendere la sua
privacy sia quello di comprare un nuovo Smartphone con una nuova SIM e un
nuovo numero.
Errore, perché al primo "Sono io, questo è il mio nuovo numero da
utilizzare solo per What’s up, mi raccomando non darlo a nessuno" si
troverà aggiunto, sotto il suo vero nome, alla rubrica personale, che l’OTT
aveva già in archivio", del suo corrispondente . che, per farla breve,
diventa un delatore.
A ben vedere dobbiamo nuovamente puntare il dito sull’articolo 15, del GDPR
questa volta, Diritti dell’interessato, perché Facebook non mi ha mai
avvisato (sono ioo l’interessato!) che mia moglie via
What’s Up ha trasmesso a Zuckerberg l’elenco completo ed aggiornato di tutti
i miei numeri di telefono, anche riservati, che non volevo far conoscere all’OTT.
La scusa è che non possono dirmelo perché non sono iscritto: se volessi
sapere cosa sanno su di me dovrei iscrivermi e comunicare il poco che (forse)
ancora non sanno…
* Co-fondatore di MClink
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