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Protezione dei dati personali

Qualcosa non funziona nella "patria del diritto"

di Manlio Cammarata - 28.06.04

 
Non ci dovrebbero essere sorprese nella conversione in legge del decreto-legge n. 158 del 24 giugno scorso, che proroga al 31 dicembre di quest'anno l'obbligo di redazione del "documento programmatico sulla sicurezza". Il termine originale, come si ricorderà, "sembrava" previsto dal codice delle privacy (regola 19 dell'allegato B) al 31 marzo 2004, ma un parere del Garante lo aveva posto al 30 giugno. Ora, con il DL 158/04, tutto è rimandato alla fine dell'anno. Non solo la redazione del DPS, ma anche l'adozione delle stesse "misure minime" previste dall'art. 180 del codice. Come dire: la sicurezza dei dati personali è rinviata...

C'è ben poco da aggiungere alle considerazioni espresse su questo numero da Corrado Giustozzi (Rinviato il DPS, ma non è una cosa seria) e Paolo Ricchiuto (DPS: non tutti gli obblighi sono stati prorogati). Ma non si può tacere il senso di profondo disagio che il cultore del diritto prova di fronte all'ennesimo nodo di una matassa legislativa sempre più aggrovigliata e quindi sempre più inefficace.
L'impianto generale della normativa sulla protezione dei dati personali è stato impostato una decina di anni fa. Molte disposizioni del codice entrato il vigore il 1. gennaio di quest'anno erano già note (e discusse) nel 1995, come si può ancora leggere in Tutela dei dati personali: rilievi al disegno di legge di Donato A. Limone, pagina che risale al 16 maggio di quell'anno.

Poi è arrivata la legge 675/96, con un'interminabile serie di modifiche e di aggiunte, fra le quali il DPR 318/99 sulle "misure minime". Infine il DLgs 196/03 con l'allegato B, salutato (con qualche buone ragione) come un passo avanti verso la chiarezza delle regole. Ma ecco i rinvii - in via interpretativa o per decreto - a rimettere tutto in discussione. Le cronache degli ultimi mesi, il confronto quotidiano dei consulenti con le aziende, indicano con chiarezza che una buona parte dei titolari dei trattamenti non ha ancora assimilato le nozioni più elementari della protezione dei dati personali. Per non parlare della pubblica amministrazione: il rinvio al 31 dicembre 2005 (2005!) dell'obbligo di identificare i tipi di dati sensibili e giudiziari e i relativi trattamenti la dice lunga sul livello di preparazione del settore pubblico.

Sembra che anni e anni di provvedimenti normativi, di libri, articoli, convegni, polemiche non siano serviti a nulla. Come mai?
La prima spiegazione che viene in mente è che l'eccesso di comunicazione abbia provocato una sorta di "anestesia", come la sordità che colpisce chi è esposto a troppo rumore. O forse è come per la segnaletica stradale, che nessuno guarda più perché ce n'è troppa: a seguirla con la dovuta attenzione si finisce per causare un incidente...

E le norme sulla protezione dei dati personali sono troppe, troppo difficili da leggere, in primo luogo per l'ermeticità di testi costruiti con inutili perifrasi, catene di rinvii ad altre norme, espressioni sempre più contorte e lontane dal linguaggio comune.
Il legislatore sembra trastullarsi con la lingua italiana con un lettore della Settimana enigmistica con i giochi di parole. Avrebbe potuto scrivere il "codice della protezione dei dati personali", invece ecco il "codice in materia della protezione dei dati personali: come se il codice penale si intitolasse "codice in materia di delitti e contravvenzioni" o qualcosa di simile.

Che dire dell'invenzione delle "credenziali di autenticazione", che sembrano il frutto di un litigio tra ambasciatori e notai, mentre invece si tratta semplicemente di "codici di accesso" o "di abilitazione", o della "autenticazione informatica" che fa pensare a un pubblico ufficiale nascosto dentro il computer? E si potrebbero fare tanti altri esempi:  abbiamo già scritto dell'equivoco semantico contenuto nella stessa espressione di "documento programmatico sulla sicurezza (vedi Il documento programmatico non è "la sicurezza"), ma sono tanti gli "errori di comunicazione", e non solo nella normativa sulla protezione dei dati personali.

L'intenzione di rendere le disposizioni più chiare gioca brutti scherzi quando si cerca di realizzarla rendendole troppo dettagliate, come dimostrano proprio le regole sulla privacy, che trascurano del tutto gli antichi princìpi di astrattezza e genericità della norma, per occuparsi di particolari e inezie che provocano sgomento.
Come l'indicazione contenuta nel recente documento del Garante (è una fonte normativa?) Privacy e giornalismo. Vi si legge che "la pubblicazione dell'immagine di una signora anziana, chiaramente identificabile, ripresa al mercato con la spesa, può ritenersi non pertinente rispetto ad un articolo sulla solitudine degli anziani, oltre che lesiva della dignità dell'interessata. Diverso il giudizio potrebbe essere se la stessa foto fosse posta, per esempio, a corredo di un articolo sulla longevità".

Chiaro? Mica tanto: possiamo essere certi che si aprirà un dibattito (con ulteriore intervento del Garante) su che cosa significhi "chiaramente identificabile"...
Tutto questo porta a conseguenze paradossali, come il rinvio sostanziale dell'obbligo di adottare efficaci (e non solo "minime") misure di sicurezza per la protezione dei dati sensibili, mascherato da mera proroga di un adempimento burocratico.

Il nostro Paese era chiamato "patria del diritto". E a ragione, come dimostra il fatto che in tutti i testi giuridici scritti nelle lingue occidentali sono sempre presenti citazioni in latino, proprio per la loro efficacia e chiarezza. Ma ora, evidentemente, nella patria del diritto qualcosa non funziona più.

 

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