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Tranquilli, la Pantera Rosa non cambia colore

di Manlio Cammarata -06.12.07

 
"Liberate il magenta!"
A InterLex sono arrivate in questi giorni diverse sollecitazioni ad aderire alla campagna per "liberare" il colore magenta e la combinazione blu-argento, che sarebbero state in qualche modo "sequestrate", rispettivamente, da Deutsche Telekom e da Red Bull con marchi commerciali europei (vedi Repubblica.it del 14 novembre scorso).
In effetti sono centinaia i siti che si scagliano contro la supposta appropriazione dei colori. Qualche esempio: www.megalab.it/news.php?id=1879, www.stijlfigurant.nl/magenta/index.php, www.freemagenta.it www.webmasterpoint.org/news/il-colore-magenta-e-copyright-di-deutsche-telekom_p30650.html,  e tanti altri. Su un divertente sito danese, Stupid Studio, si teme addirittura che la Pantera Rosa debba cambiare colore, visto che il "rosa" del cartone originale è vicino al magenta.

Calma, ragazzi!

La notizia, così come viene data da molti siti, appare a prima vista bislacca e imprecisa. Prima di tutto si nota come le informazioni siano passate dall'uno all'altro senza il minimo controllo o approfondimento. Infatti viene molte volte citato il numero del marchio comunitario di Red Bull (CTM 002534774) per indicare quello di Deutsche Telekom (che invece è CTM 000304626). Poi non è vero che i colori in questione siano oggetto di "brevetto" o di "copyright". Si tratta invece di "marchi commerciali comunitari" (CTM, Community Trade Mark), che sono tutt'altra cosa.

Ma il bello è che l'intera questione, così come viene presentata, è priva di fondamento. Per capirlo basta andare sul sito dell'Ufficio per l'armonizzazione del mercato interno, sul quale si possono trovare in un attimo informazioni dettagliate su ogni marchio registrato come CTM. Si scopre così che la registrazione della combinazione blu-argento di Red Bull è stata depositata nel 2002, registrata nel 2005 e dichiarata nulla per ben tre volte nel 2007.
E per quanto riguarda il magenta di Deutsche Telekom, depositato nel 1996 e registrato nel 2002, l'oggetto tutelato non è il colore, ma la denominazione.

Resta comunque un dubbio: nasce dalla presenza, su alcuni siti, di una presunta dichiarazione di Deutsche Telekom o della sua controllata T-Mobile che vieterebbero l'uso del colore magenta, in quanto "registered trade mark". Il fatto strano è che il colore usato dalle due compagnie non è il magenta, ma un colore più scuro. Per essere chiari, dei due rettangoli che si vedono qui sotto con i relativi codici RGB in notazione esadecimale, il primo è il magenta "vero", oggetto del presunto deposito, il secondo è quello effettivamente usato nei due siti (www.telekom.de e www.t-mobile.com).

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Evidentemente c'è qualcosa che non funziona. Se non ci fossero le registrazioni ufficiali, il tutto avrebbe l'aria di una burla. Ma è chiaro che la campagna "liberate il magenta" è fondata sul nulla, anche a prescindere dal fatto che la registrazione come marchio commerciale di un semplice colore, che esiste da sempre ed è universalmente usato, non sta in piedi.

Ma da questa vicenda si possono trarre diverse morali. La prima è che siamo ormai così abituati alla "privatizzazione" della conoscenza che queste notizie da una parte sembrano normali e dall'altra suscitano reazioni clamorose. La blindature delle idee è un aspetto preoccupante del nostro tempo Ne abbiamo parlato tante volte (vedi, fra l'altro, Contenuti: giardino recintato o campo di concentramento? di Paolo Nuti, Contenuti sotto chiave: XCP è solo la punta dell'iceberg, La società dell'informazione negata).

La seconda morale è quella che piace ai detrattori del World Wide Web: sull'internet si trovano tante notizie non vere, errate, superficiali. Ma l'informazione "frettolosa e semplificatoria" (come la definì Eugenio Scalfari nel 2000) non è solo sull'internet. E' anche sulla carta stampata e nella televisione. Con un differenza: che cercando nel WWW si possono trovare anche pagine che approfondiscono i problemi, correggono gli errori, rivelano gli equivoci. Come questa che state leggendo. Come l'articolo di Paolo Nuti C'è qualcosa di buono nel "patto francese", che mette in luce aspetti ignorati dai tanti che, da tanti siti, in questi giorni si scagliano superficialmente contro un testo che presenta diversi motivi di interesse.

 

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