Il Governo cancella un vanto
dell'Italia
di Manlio Cammarata e Enrico Maccarone - 10.01.02
Addio firma digitale "all'italiana", addio alla normativa che aveva
posto il nostro Paese all'avanguardia nel mondo nel difficile campo
dell'accoglimento delle innovazioni tecnologiche nell'ordinamento giuridico.
In questo numero pubblichiamo il primo articolo di una serie che affronta I veri problemi della firma digitale, ma c'è da
chiedersi se sia il caso di continuare, visto che l'oggetto dell'analisi
praticamente non esiste più. Come abbiamo annunciato una settimana fa, il 21
dicembre scorso il Consiglio dei ministri ha approvato l'atteso decreto
legislativo per il recepimento della direttiva
1999/93/CE "relativa ad un quadro comunitario per le firme
elettroniche". Il provvedimento approvato, che non dovrebbe essere molto
diverso dal testo definitivo, non è ancora reperibile, ma c'è uno schema inviato il giorno prima (20 dicembre)
ai capi degli uffici legislativi dei ministeri. Schema sul quale basiamo le
nostre considerazioni e che, se corrisponde al testo finale, cancella in un
colpo solo i punti fermi della normativa introdotta con il secondo comma dell'art. 15 della legge 59/97.
Un testo confuso, farraginoso, lacunoso e ridondante nello stesso tempo, che
azzera tutto il lavoro compiuto in oltre cinque anni dall'Autorità per
l'informatica nella pubblica amministrazione. Certo, il DPR 513/97 (poi trasfuso nel testo unico sulla documentazione amministrativa)
non era perfetto, ma aveva il grande merito di disegnare un sistema coerente,
basato su un assunto innovativo: il riconoscimento dell'efficacia legale di
processi tecnologici capaci di garantire un livello di sicurezza almeno pari a
quello delle procedure tradizionali, fondate sul vecchio armamentario delle
firme autografe, dei timbri, sigilli e punzoni e di quant'altro la burocrazia
aveva saputo inventare nel corso dei secoli. Il documento informatico
"valido e rilevante a tutti gli effetti di legge" era un'innovazione
di portata epocale, addirittura un salto in avanti troppo lungo per le strutture
dello Stato e la cultura dei cittadini e delle imprese.
Poi è venuta la direttiva 1999/93/CE, fondata su quella prospettiva
bottegaia che, purtroppo, costituisce un aspetto ricorrente nel pur grande e
nobile progetto dell'Unione europea. Una direttiva che all'origine aveva l'unico
obiettivo di assicurare libertà di azione nell'ambito comunitario a chiunque si
mettesse in testa di "certificare" qualsiasi cosa, senza alcun
riguardo né all'affidabilità dei soggetti, né alla sicurezza delle procedure,
né alle garanzie per gli utenti, in linea con la congerie degli ordinamenti
giuridici vigenti in Europa. Un compromesso irraggiungibile.
Solo nella fase finale della discussione sono state aggiunte le previsioni sulla
firma "avanzata", ricopiando confusamente nei tre allegati le innovative disposizioni italiane e
introducendo alcuni commi ad hoc nell'articolato, ma senza poi
preoccuparsi di coordinare meglio le due fattispecie così disegnate e, almeno,
di fornire definizioni coerenti e univoche dei nuovi istituti.
Il legislatore italiano vuole aggravare la situazione. Lo schema inizia
addirittura con un errore di diritto: si legge infatti nell'art. 2 che s'intende per "firma
elettronica" l'insieme dei dati in forma elettronica allegati oppure
connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come
metodo di autenticazione informatica. E' sbagliato. La firma elettronica
serve per la "validazione" di un documento, mentre nell'ordinamento
italiano con il termine "autenticazione" si indica una complessa
procedura, compiuta da un pubblico ufficiale, che accerta l'identità del
sottoscrittore, la legittimità dell'atto e via discorrendo.
Un'altra definizione crea una grave frattura con il nostro ordinamento,
perché dice che s'intende per "dispositivo per la creazione di
una firma sicura" il programma informatico o l'apparato strumentale, usato
per la creazione di una firma elettronica eccetera. La nostra vecchia
definizione (ancora non abrogata) parlava invece di un "dispositivo
programmabile solo all'origine", escludendo quindi software, dischetti e
altri mezzi di totale insicurezza. Il regolamento tecnico potrà sistemare un
po' le cose, ma tanto basta a capire come i ferrei principi del DPR 513/97 siano
destinati al dimenticatoio.
Eppure non ci voleva molto a conciliare la serietà della normativa italiana con
l'allegra confusione delle disposizioni comunitarie (vedi i due articoli I problemi del recepimento della direttiva 1999/93/CE).
Un altro errore (e siamo ancora alle definizioni!) riguarda proprio l'oggetto
principale del provvedimento. Dimenticando (???) che recepire una direttiva non
significa copiarla, il legislatore ha dissennatamente ripreso la definizione di
"firma elettronica avanzata" per indicare la firma digitale
sicura. Ma nel prosieguo dell'articolato ha usato di nuovo la definizione di
"firma digitale" o ha inutilmente elencato i requisiti del
"dispositivo per la creazione di una firma sicura", del
"certificato qualificato" e via specificando, quasi consapevole della
necessità di fare chiarezza dopo aver introdotto tanta confusione. Si poteva
benissimo scrivere per "firma digitale", o "firma digitale
sicura", si intende la firma elettronica ottenuta attraverso una procedura
informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca
identificazione, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un
controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da
rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati".
Sarebbero state salve sia la direttiva sia la chiarezza e la coerenza con
l'ordinamento esistente.
Tralasciamo altri aspetti criticabili dello schema, la cui analisi
richiederebbe pagine su pagine, per fissare la nostra attenzione su un passaggio
che non è esagerato definire devastante: l'art.
6, che riscrive l'art. 10 del testo unico
su "Forma ed efficacia del documento informatico".
Il primo comma sancisce che il documento informatico (con o senza firma digitale
sicura) ha l'efficacia probatoria prevista dall'articolo 2712 del codice civile,
riguardo ai fatti e alle cose rappresentate. E' una modifica opportuna e
ineccepibile.
Ma il comma 2, capovolgendo l'impostazione di fondo della nostra normativa,
attribuisce l'efficacia della "forma scritta", rigidamente regolata
dal codice civile, anche al documento con firma elettronica "debole".
Si noti che questa soluzione non "recepisce", ma va ben oltre le
previsioni europee contenute nell'art. 5
della direttiva. Come se non bastasse, la firma elettronica "insicura"
(per definizione, visto che l'altra è definita "sicura"), è efficace
anche ai fini degli articoli 2214 e seguenti del codice civile e da ogni
altra analoga previsione legislativa o regolamentare. Cioè per la tenuta
dei libri obbligatori, delle altre scritture contabili delle società e per
tutte le altre situazioni del genere.
Il risultato di questa "liberalizzazione selvaggia" non può essere
che l'insicurezza elevata a sistema, il caos nelle verifiche, l'impossibilità
di avere qualsiasi ragionevole certezza sull'autenticità delle scritture, visto
che la certificazione "leggera" non è soggetta ad alcun controllo.
Aggiungiamo che l'art. 9, innovando in
parte l'art. 38 del TU, sancisce che Le
istanze e le dichiarazioni inviate [alla pubblica amministrazione] per via
telematica sono valide:
a) se sottoscritte mediante la firma digitale, basata su di un certificato
qualificato, rilasciato da un certificatore accreditato e generata mediante un
dispositivo per la creazione di una firma sicura;
b) quando l'autore è identificato dal sistema informatico con l'uso della carta
d'identità elettronica o della carta nazionale dei servizi.
La quale carta (l'Italia è notoriamente il paese della fantasia), non esiste
ancora nell'ordinamento, ma solo nelle dichiarazioni programmatiche di un
qualificato ministro.
Così si conclude che la firma digitale sicura non è necessaria per il
dialogo con la pubblica amministrazione (e sarà presumibilmente più semplice e
meno costoso avere la carta dei servizi), né quando il codice civile
prescrive la forma scritta, né per la tenuta dei libri obbligatori. In sostanza
non serve a nulla.
Si cancellano cinque anni di lavoro. Il vanto dell'Italia per aver
innovato l'ordinamento in funzione delle tecnologie, prima di ogni altra
nazione, diventa quasi una vergogna.
La firma digitale "all'italiana" muore bambina, uccisa nella culla
dall'insipienza e dalla burocrazia o forse da schegge impazzite di un sistema
refrattario a qualsiasi progresso, a qualsiasi innovazione. Un tentativo era
già stato fatto un anno e mezzo fa, con le prime versioni del testo unico sulla
documentazione amministrativa. Come qualche lettore ricorderà, allora InterLex
denunciò la situazione (vedi Si vuole
abrogare la firma digitale?, Così si distrugge il
documento informatico e gli altri articoli della serie), quindi l'AIPA
intervenne con gli stessi argomenti e il testo fu corretto.
Riusciremo anche questa volta a evitare il disastro? C'è da dubitarne, visto
che proprio dallo schema in questione appare esplicita l'intenzione del Governo
di esautorare l'Autorità per l'informatica. Una delle poche strutture dello
Stato che in questi anni ha saputo produrre innovazione e progresso, e certo
l'unica che ha proposto via internet alla pubblica discussione i progetti delle
iniziative più importanti.
|