L'open source è una scelta politica
di Manlio Cammarata - 28.11.02
Sono passate tre settimane dalla pubblicazione del comunicato
con il quale il Ministro per l'innovazione e le tecnologie ha annunciato la
costituzione di una commissione che, dice la nota, "effettuerà una
approfondita analisi delle tendenze tecnologiche e di mercato e, confrontando le
posizioni in materia dell'Unione Europea, dei maggiori Paesi industrializzati
nonché dell'industria Ict (Information and communication technologies),
fornirà a tutte le Amministrazioni Pubbliche, gli elementi di valutazione per
le scelte e le strategie riguardo il software a codice sorgente aperto".
Sono passate tre settimane, ma il provvedimento non è stato ancora
pubblicato sul sito del Dipartimento, oppure è molto ben nascosto. Come
peraltro buona parte degli atti normativi del Governo, difficilissimi da
rintracciare sul sito della Presidenza del consiglio, quando ci sono.
Inefficienza o deliberata "riservatezza"? Difficile rispondere, ma non
si può non ricordare che della pubblicazione telematica degli atti normativi si
discute inutilmente da più di sette anni (vedi Trasparenza
nell'esercizio del potere, diritto alle informazioni e nuove tecnologie di
Francesco Brugaletta, giugno 1995).
Ma torniamo alla questione dell'open source nella pubblica amministrazione.
L'annuncio della costituzione della commissione ha provocato reazioni di segno
diverso, come si può vedere dagli articoli che pubblichiamo su questo numero.
Il primo, Qualche ipotesi di lavoro per la commissione
open source è dell'avvocato Andrea Monti, paladino storico del
software libero, il secondo Se la risposta è già nella
domanda è dell'avvocato Guido Scorza e rispecchia nella sostanza alcune
posizioni dei produttori di software "proprietario". A questi punti di
vista dobbiamo aggiungere quello di alcuni parlamentari dell'opposizione, che
hanno presentato disegni di legge per incoraggiare l'uso di software open source
nella pubblica amministrazione (vedi Folena
risponde su open source e larga banda).
Per inquadrare il problema partiamo proprio dal disegno di legge "Cortiana" (S. 1188).
Esso ha come fine dichiarato quello di conseguire il "pluralismo
informatico... eliminando altresì ogni barriera dovuta a diversità di
standard": come se l'interoperabilità tra piattaforme diverse fosse una
formalità da abolire per legge.
Ma il punto critico è nelle disposizioni dell'articolo 6, sulle quali è facile
sollevare l'obiezione che sono in contrasto con i principi del libero mercato.
Si aggiunga che il terzo comma (che obbliga la pubblica amministrazione che
intenda avvalersi di un software non libero a motivare "analiticamente"
la ragione della scelta) fa rientrare dalla finestra quello che si è cacciato
dalla porta. Infatti non è difficile dimostrare, in moltissimi casi, che
l'adozione di software "chiuso" è preferibile a quella del software
libero, per il semplice fatto che non richiede modifiche all'esistente,
formazione del personale, costi per ottenere l'interoperabilità e via
discorrendo.
Se la scelta tra il software proprietario (quasi sempre Microsoft o in
ambiente Microsoft) e il software libero si deve basare esclusivamente su
considerazioni tecnico economiche, la discussione può andare avanti
all'infinito, perché è arduo prevedere in anticipo quali saranno le politiche
dei produttori, soprattutto in materia di prezzi e assistenza, e le linee che
essi seguiranno nello sviluppo tecnologico.
Ma quella in gioco non è solo una scelta economica, è una scelta politica. Si
tratta di decidere in primo luogo se la pubblica amministrazione deve dipendere
da un solo fornitore, per di più in posizione di quasi monopolio sul mercato
mondiale, o se deve essere libera di scegliere i prodotti di volta in volta più
convenienti.
Prodotti che devono presentare alcune caratteristiche irrinunciabili: prima
di tutto la disponibilità dei sorgenti (anche ai fini della sicurezza) e la
loro modificabilità e riusabilità. Perché non si dovrebbe poter usare un
software prodotto da Microsoft o da un'altra grande casa, se esso presentasse
questi requisiti?
Con l'istituzione di una commissione "per" il software libero il
ministro Stanca ha senza dubbio compiuto una scelta politica largamente
condivisibile.
Ora si deve attendere il risultato del lavoro della commissione. Che
probabilmente in tre mesi non potrà fare molto, visto il programma che le è
stato assegnato, ma comunque potrà offrire un contributo essenziale alla
migliore conoscenza dei problemi sul tappeto. Si potranno così formulare
proposte normative realistiche e giuridicamente inattaccabili. In fondo, dopo
anni di discussioni senza sbocco, non dovremo aspettare molto a lungo. |