Tra una delega scaduta e un progetto
difficile
di Manlio Cammarata - 30.07.98
Il decreto
legislativo del 22 luglio scorso,
relativo al trattamento dei dati sensibili da parte della pubblica
amministrazione, segna un punto critico nell'evoluzione della normativa sulla
riservatezza introdotta con la legge
675/96, per due motivi essenziali.
In primo luogo è giunto alla scadenza della delega al Governo, prevista dalla legge
676/96 per l'emanazione di norme
integrative della 675. A questo punto, secondo l'intenzione originaria del
legislatore, la normativa dovrebbe essere completa e l'applicazione della legge
dovrebbe essere "a regime". Ma, anche considerando solo l'elenco delle
materie contenuto nella 676, è evidente che siamo molto lontani da quel
traguardo.
Il secondo motivo che induce a considerare "critico" il nuovo decreto
è nella sua impostazione, che sembra in qualche misura distante da quella della
675. Si tratta infatti di norme che, almeno a prima vista, lasciano agli enti
pubblici una notevole libertà d'azione nel trattamento dei dati previsti dagli articoli
22 e 24, oltre a mettere in ombra il
ruolo del Garante. Il trattamento di dati sensibili da parte degli enti pubblici
è meno pericoloso, per l'interessato, di quello compiuto dai privati? La storia
recente ci insegna che il concetto di riservatezza dei dati in ambito pubblico
è alquanto vago. Dunque le nuove norme non sembrano del tutto rassicuranti,
soprattutto se confrontate con la lettera iper-garantista della legge 675, per
quanto riguarda i trattamenti in ambito privato.
Scaduta la delega, la parola deve tornare al
Parlamento, che potrà semplicemente rinnovarla negli stessi termini o fornire
indicazioni diverse. Considerando le difficoltà emerse nel primo anno di
applicazione della legge e le polemiche che ha scatenato, c'è la possibilità
che il rinnovo non sia un fatto di ordinaria amministrazione. I tempi potrebbero
essere lunghi, tanto che forse qualcuno potrebbe chiedersi se non sia il caso di
rimettere mano al testo della 675 e correggere almeno gli errori che
l'esperienza del primo anno di applicazione ha messo in luce. Si potrebbe anche
cogliere l'occasione per semplificare il sempre più incomprensibile patchwork
che si è creato tra il testo originario, le toppe cucite dai decreti
legislativi e gli aggiustamenti - ancorché opportuni - compiuti dal Garante con
le autorizzazioni generali.
In questo clima, tutt'altro che positivo, il
Garante si appresta a svolgere uno dei numerosi compiti che la legge gli
attribuisce: promuovere, come afferma l'articolo
31, comma 1, lettera h), nell'ambito
delle categorie interessate, nell'osservanza del principio di
rappresentatività, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona
condotta per determinati settori, verificarne la conformità alle leggi e ai
regolamenti anche attraverso l'esame di osservazioni di soggetti interessati e
contribuire a garantirne la diffusione e il rispetto.
Il primo settore sul quale il Garante ha puntato la sua attenzione è quello di
Internet, come è apparso chiaro anche dal tema e dagli sviluppi del convegno
che si è tenuto nel primo anniversario della piena entrata in vigore della
legge 675.
Dalle interviste a Stefano
Rodotà e Claudio
Manganelli emergono con sufficiente
chiarezza gli obiettivi e gli ambiti di un lavoro che non potrà essere semplice
né veloce, ma che va comunque portato avanti con tutto l'impegno possibile.
Su un punto, soprattutto, è necessario adoperarsi con molto vigore, da subito:
quello della rappresentatività della categoria, che nella legge e nelle parole
del Garante si rivela come il nodo centrale dello sviluppo del codice
deontologico. In Italia non c'è un organismo che si possa dire rappresentativo
dell'universo degli operatori di Internet, anche perché della maggiore
associazione, l'AIIP, non fa parte il provider di maggiori dimensioni, Telecom
Italia. Anzi, tra AIIP e Telecom c'è una dura contrapposizione, come dimostra
la causa antitrust della quale abbiamo dato notizia appena una settimana fa.
Si aggiunga l'incertezza del quadro normativo e istituzionale, con le
discutibili politiche del Ministero delle comunicazioni da una parte e la non
ancora operativa Autorità per le Garanzie dall'altra, il ruolo negativo di un
Parlamento "internettofobo" e la non attenzione del Governo ai
problemi reali della società dell'informazione.
Non è facile immaginare che cosa potrà essere
deciso da un "tavolo" intorno al quale siederanno interlocutori che
non hanno la minima visione comune delle regole di Internet. Il progetto del
codice deontologico di Internet si prospetta difficile fin dalla sua
impostazione.
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