Tutti chiusi in casa, tutti online. Chi per studio o lavoro, chi perché non
ha altro da fare. E le reti non ce la fanno. Rallentano, rallentano fino a
diventare inservibili. Va bene a chi vive in una grande città, ma chi risiede
in un piccolo centro in molti casi è tagliato fuori. Tagliato fuori dalla
società, tagliato fuori da quel mondo che qualcuno continua a chiamare
"virtuale" e che invece oggi si rivela come la sola
"realtà" del contatto con gli altri e con le istituzioni.
E c'è chi il senso della realtà lo perde. C'è una petizione online per aumentare la capacità
delle reti di trasmissione. Una specie di danza della pioggia in tempo
di siccità. Ma meno efficace. Infatti può accadere che il giorno dopo piova – e allora si
dirà che la danza ha avuto effetto – ma è impossibile che da un giorno
all'altro la fibra ottica copra l'Italia e i server siano adeguati al traffico
di un tempo di crisi in cui tutti si connettono da casa, telelavorano o inondano
i social con tsunami di fake news e stupidaggini.
Accade in questi giorni quello che avevo previsto esattamente venticinque
anni fa, intitolando un forum Comportamenti
e norme nella società vulnerabile. Lo so che non è elegante
autocitarsi, ma nella pagine di InterLex (nata da quel forum) c'è la storia di
questi anni, che chiunque può ripercorrere Qui trova le premesse della
situazione di oggi – mentre la memoria dei social dura poche ore.
Allora, nel 1995, c'era un problema di norme in ritardo sull'evoluzione della
società. Ma pochi si rendevano conto che il sistema che incominciava a
svilupparsi era intrinsecamente vulnerabile. Oggi lo tocchiamo con mano.
Il fatto è che non è stata costruita quell'architettura normativa che avrebbe dovuto
adeguare la struttura della società allo sviluppo delle tecnologie.
Oggi le norme sono troppe. Alle disposizioni ordinarie si aggiungono quelle
emanate per fronteggiare l'emergenza. Un guazzabuglio, una matassa inestricabile
dove un occhio attento può scoprire forzature costituzionali e violazioni dei
diritti fondamentali (ne ha parlato Andrea Monti in Il corto circuito del diritto è il black-out della democrazia).
L'inadeguatezza delle reti era già emersa l'11 settembre 2001. Nelle ore
degli attentati a New York e a Washington l'internet era collassata e solo la
televisione era riuscita a fornire un'informazione in tempo reale (vedi
Attacco all'America: nel
sistema dei media vince ancora la televisione - 11 settembre, la sconfitta della Rete).
Forse, per capire il nostro tempo alla luce della storia, vale la pena di
leggere anche Con la scusa di combattere il
terrorismo e Il cattivo uso della rete
di Andrea Monti.
Dopo vent'anni i temi sono altri, l'emergenza sanitaria
è in prima pagina più del terrorismo, le reti di comunicazione sono diventate
la colonna portante dei rapporti sociali e, a volte a sproposito,
dell'informazione. Ma, a ben guardare, i problemi non sono molto diversi.
Tutti
stanno a casa, tutti si collegano contemporaneamente e la rete rallenta (e meno
male che non collassa, o non è collassata fino a questo momento).
Si fanno pressanti gli inviti al telelavoro (o smart working, con il
solito inutile anglicismo, lavoro agile per il nostro fantasioso
legislatore). Se ne discute da anni, si sa che potrebbe – fra l'altro –
alleviare la paralisi del traffico in città come Roma, ma non si è fatto nulla
di concreto, né a livello di organizzazione né a livello di strutture. Così,
appena si tenta un più diffuso sistema di lavoro a distanza, si scopre che la
rete non ce la fa. Senza contare i problemi di sicurezza, come ci spiega in
questo articolo Andrea Gelpi.
Questi – sovraccarico e insicurezza – sono sono i temi dominanti della
"società vulnerabile" di oggi. Niente di nuovo, purtroppo.
|