Consenso, informativa e direct marketing - 1
di Andrea Putignani* -
17.05.01
Il futuro del direct marketing è in rete, laddove è praticamente
gratuito ed ottiene un rendimento più che triplicato. Tuttavia, mentre per il
mittente il costo è estremamente basso rispetto ai metodi di marketing
tradizionali, il destinatario finisce per sopportare oneri e costi, quantomeno
in termini di tempi di collegamento (e relativo aggravio tariffario). Negli
Stati Uniti, dove tale fenomeno si è manifestato con il consueto anticipo sui
nostri tempi, le associazioni per la difesa dei consumatori chiedono alle
autorità competenti di proibire l'invio di posta elettronica non sollecitata.
Lo spamming, ovvero l'invio di messaggi indesiderati generalizzati a
grandi liste di utenti, è un comportamento che suscita infatti un grande
fastidio tra gli utenti della Rete, ed è considerato per lo più violativo
delle regole di netiquette (v. la Raccomandazione n. R (99) 5 del
Consiglio d'Europa, recante linee guida per la protezione della privacy su
Internet, reperibile sul sito
ufficiale del Garante per la protezione dei dati personali).
Le e-mail commerciali, infatti, intasano la rete e rischiano di riempire
le caselle elettroniche di informazioni inutili; l'esperienza USA, altrove
permissiva nell'utilizzo dei dati personali, bolla indiscutibilmente questo
comportamento come illecito, in quanto lesivo della privacy individuale. Gli
indirizzi Internet non possono essere (a differenza degli indirizzi di
abitazioni) raccolti, commercializzati, usati (In questo senso, mancando una
normativa federale, si muove la legislazione di numerosi Stati dell'Unione,
quali Washington, Nevada, California, Virginia; cfr. le indicazioni di F. Jones,
Spam:
Unsolicited Commercial E-mails By Any Other Name).
Tuttavia, una simile privativa generalizzata, pur giustificata dalla
sostanziale omogeneità di metodo e dal similare potere di condizionamento
indotto ravvisabile tra le due forme di pubblicità, ignora la distinzione,
propria dei sistemi europei, tra comunicazione commerciale (che gode di minori
margini di tolleranza) e comunicazione politica e sociale (in astratto
considerata funzionale alla formazione della coscienza civica).
Vi è da ricordare, sul punto, che se negli USA la garanzia del Primo
Emendamento (comune ad entrambe le forme di propaganda) è interpretata in modo
assai più restrittivo per il commercial free speech, nel nostro
ordinamento il fondamento primario della libertà di propaganda commerciale è
costituito dall'art. 41 Cost. e non dall'art. 21 Cost., con le inevitabili
differenze nel bilanciamento con il diritto alla tutela della vita privata
(soprattutto alla luce dell'art. 41, comma 2, Cost.).
Nell'ordinamento comunitario e al livello della legislazione italiana di
recepimento, invece, si è sinora ritenuto di non applicare, in ragione della
specifica finalità politica od elettorale perseguita, la medesima disciplina
prevista per le comunicazioni non richieste in materia commerciale; a tali
sistemi, comunque, si applica integralmente la legislazione sulla protezione dei
dati.
L'articolo 7 della direttiva 2000/31/CE
(direttiva sul commercio elettronico), ha sancito in proposito l'obbligo di
identificare "fin dal momento in cui il destinatario le riceve", le
comunicazioni commerciali, come tali, in modo chiaro ed inequivocabile; grava
sul soggetto che svolge la propaganda l'onere di consultazione dei registri di
esclusione, comprendenti le persone fisiche che non desiderano ricevere tali
comunicazioni commerciali, laddove la normativa nazionale li preveda.
Nel nostro Paese, peraltro, visto il disposto dell'art.
10 del DLgs 171/1998, che vieta le comunicazioni commerciali non sollecitate
attraverso il sistema di chiamata automatica senza intervento di un operatore,
la garanzia prevista dall'art. 7 della direttiva 2000/31 è già stata,
di fatto, introdotta da quasi tre anni(sul punto cfr. M. Atelli, Commento all'art.
10, d.lg. n. 171/1998, in M. Atelli (a cura di), Privacy e
telecomunicazioni, Napoli, 1999, pp. 201 ss).
Resta da verificare, allora, quale possa essere la complessiva tenuta del
sistema italiano di protezione dei dati personali, rispetto alle esigenze di
tutela che i fenomeni in questione sollevano.
Quel che è certo, però, è che il Garante per la protezione dei dati
personali, sin d'ora, sembra aver ben chiare le direttrici della normativa cui
sovrintende, e mostra tutte le intenzioni di porre decisi argini ad ogni abuso
in materia.
Si vuole, per prima cosa, dar conto della segnalazione
esaminata dal Garante in data 11 gennaio 200, la quale senz'altro costituiva,
al di là della contingenza elettorale, un importante banco di prova dell'impianto
normativo della legge 31 dicembre 1996, n. 675,
rispetto alle sfide proposte dalla crescente familiarità sociale con l'utilizzo
degli strumenti telematici.
Si trattava, infatti, di valutare l'ammissibilità della prassi adottata da
un'associazione politica, di inviare in modo generalizzato, senza previo
consenso, e per finalità di comunicazione politica, messaggi di posta
elettronica.
Vi è da osservare, per sgombrare il campo da equivoci circa gli strumenti
effettivamente a disposizione del Garante, che, nel caso di specie, le finalità
della comunicazione escludevano fin dal principio la possibilità di applicare l'art.
10 del DLgs 171/1998 sulla tutela della riservatezza nelle telecomunicazioni,
per risolvere la controversia. In realtà, è vero che l'art. 10 medesimo nega
la possibilità di far uso di un sistema automatizzato di chiamata senza
intervento di un operatore; a tale meccanismo, è d'altronde riconducibile il
funzionamento dei protocolli di posta elettronica.
Non ci pare che le modalità, con cui è stata recepita la direttiva
97/66/CE possano lasciare dubbi sull'inopportunità di interpretazioni
restrittive del termine "chiamate", come è invece accaduto in altri
Paesi.
Che il legislatore comunitario intendesse ricomprendere l'invio di e-mail nel
divieto di cui all'art. 12 della direttiva, si può d'altronde riscontrare
anche dal preambolo alla proposta di modifica della stessa direttiva, presentata
il 12 luglio 2000 [2000/0189(COD)].
Si aggiunga che tale proposta individua nello spamming un fenomeno del
tutto analogo alla sollecitazione via fax (Nello stesso senso, il Parere
n. 7/2000 (WP26) del Gruppo di lavoro per la tutela delle persone con
riguardo al trattamento dei dati personali, in re art. 14, p. 10).
Pur se la chiamata avviene in mancanza del consenso espresso dell'abbonato,
il divieto dell'art. 10 prende in considerazione, però, soltanto il caso in
cui la comunicazione è effettuata per scopi di invio di materiale pubblicitario
o di vendita diretta, ovvero per il compimento di ricerche di mercato o di
comunicazione commerciale interattiva (in argomento, sia consentito il richiamo
al mio Commento all'art. 10, d.lg. n. 171/1998. Forme e limiti del consenso,
in M. Atelli (a cura di), Privacy e telecomunicazioni, cit., pp. 275 ss.;
cfr. anche le osservazioni di Atelli, op. cit., p. 231 ss.).
Al Garante non restava, dunque, che la verifica dei margini di intervento
consentiti dalla normativa generale.
Nella vicenda portata all'attenzione del Garante, un'associazione
politica aveva avviato una pervasiva strategia di comunicazione per via
telematica, avvalendosi di un indirizzario di e-mail di privati
cittadini, all'insaputa e senza il consenso di questi ultimi. Tale
indirizzario era stato apprestato, secondo l'associazione, tramite un software
capace di archiviare indirizzi e-mail visualizzati su pagine web che sono
accessibili a chiunque in rete.
A prescindere da tale escamotage tecnico, per raccogliere gli
indirizzi Internet, risulta sufficiente fare un giro nei newsgroups
specializzati e selezionare gli iscritti, oppure visualizzare il profilo di un
qualunque utente registrato in un forum di discussione.
Come osserva il Garante nella pronuncia, la modalità tecnica di acquisizione
dei dati non ha rilevanza rispetto alla valutazione della legittimità e
liceità del trattamento, non essendo presa in considerazione in alcuna
disposizione della legge 675/96.
La fattispecie in esame, dunque, pur prendendo spunto da un fenomeno
riconducibile allo spamming, aveva ad oggetto in realtà la
considerazione della legittimità, in base alla normativa sulla protezione dei
dati personali, del mail grabbing, ovverosia la caccia sistematica agli
indirizzi e-mail sparsi nella rete o rintracciati attraverso meccanismi tecnici
tipici (ad esempio, i famigerati cookies).
Ci sembra in proposito, che l'indirizzo di posta elettronica possa costituire
un dato personale, come definito dall'art. 1
della legge n. 675/1996, e che il suo trattamento vada valutato in
conformità alle disposizioni recate da tale normativa, pur in presenza di
motivate perplessità affacciate in alcuni commenti.
Si veda per tutti A. Monti, Spam e indirizzi e-mail.
Quando la 675 è impotente. Il ragionamento dell'autore (secondo il quale
"nella misura in cui un indirizzo di posta elettronica non sia
immediatamente ed univocamente riferibile ad un soggetto, [.] non è possibile
parlare di dato personale in senso tecnico"), nonostante colga con
precisione un aspetto interessante della questione, non conduce di per sé alle
conseguenze paventate nel caso di specie.
In effetti, ci sembra che tale opinione si attagli maggiormente ai casi in cui
si discuta del trattamento dei dati personali riferendosi all'insieme, più o
meno strutturato in espressioni di senso compiuto, dei caratteri alfanumerici
che compongono, assieme al nome del provider, la serie cui è associato l'IP
del computer: ad esempio, nell'indirizzo mariorossi@provider.it, l'utilizzo
dell'insieme di caratteri alfanumerici "mariorossi" può ritenersi
configurare un trattamento di dati personali (v. anche, sul punto, T. Krasna, Nomi
a dominio e trattamento dei dati personali.
Viceversa, nella fattispecie oggetto di intervento del Garante, l'indirizzo
e-mail (in ipotesi, ancora mariorossi@provider.it) è trattato ed utilizzato
proprio nella sua qualità di dato personale, in quanto identificativo di una
persona, e la sua tutela è associabile pertanto all'esercizio della libertà
di corrispondenza, costituzionalmente tutelata; ciò non è per nulla escluso
dalla libertà di scelta del nickname. Rimane pur sempre da considerare
che quel nickname, associato all'indirizzo del server, è
riferibile univocamente all'IP del suo titolare al momento della connessione:
esso è inequivocamente associato all'insieme di dati personali rilasciati dal
suo titolare all'atto della sottoscrizione dell'abbonamento, e comprende un
personalizzato numero di utenza.
Continua
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