Applicare la legge 675: la
quadratura del cerchio
di Manlio Cammarata - 22.06.99
Le cronache degli ultimi giorni hanno dato
rilievo a due notizie che riportano in primo piano il dibattito sulla tutela dei
dati personali, regolata dalla legge 675/96.
La prima è un provvedimento del Garante che stabilisce la natura di "dati
personali" per le informazioni contenute nelle schede di valutazione dei
lavoratori dipendenti, la seconda è l'approvazione (non definitiva) da parte
della Commissione giustizia del Senato di una norma che vieta la pubblicazione
di immagini di persone "private della libertà personale".
Vediamo la prima notizia. Il Garante ha stabilito
che le informazioni contenute nelle schede di valutazione dei lavoratori sono
dati personali e quindi soggette all'applicazione della legge 675/96, in
particolare per quanto riguarda il diritto di accesso e di rettifica (si veda il
comunicato
stampa).
Ovvio, dirà qualcuno. Se da qualche parte c'è scritto che una persona si
comporta in un certo modo, nessuno può dubitare che si tratti di un dato
personale. Lo dice il buonsenso e lo dice anche l'articolo
1 della legge 675: per "dato
personale", [si intende] qualunque informazione relativa a persona fisica,
persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi
compreso un numero di identificazione personale.
Ma allora, dov'è la notizia? E' nel fatto che
sono ancora troppe le persone che ignorano, o fingono di ignorare, che cosa
significhi esattamente l'espressione "tutela della riservatezza" e
quale sia lo spirito della legge sul trattamento dei dati personali. Che non è
il segreto, assoluto e ottuso, su qualsiasi informazione personale, ma il
principio che ogni cittadino ha il diritto di controllare se e quali dati che
gli "appartengono" sono trattati, come e da chi. Ed eventualmente di
esigere correzioni o, in determinati casi, di opporsi al trattamento.
Tutto qui. Ma, complice anche la confusa formulazione della legge, questo
elementare concetto non è stato ancora afferrato da molti soggetti per i quali
il trattamento di dati personali è anche uno strumento di potere.
Infatti basta sfogliare i comunicati
del Garante per vedere come una parte non
trascurabile dei suoi interventi consista in semplici interpretazioni della
normativa, alla portata di qualsiasi studente in giurisprudenza, formulate per
affermare il diritto di accesso ai dati. Cioè, paradossalmente, più per
tutelare la trasparenza che la riservatezza.
La normativa italiana, al di là delle tante volte segnalate imperfezioni della
legge, ha come principio ispiratore il diritto di ciascuno al controllo dei
propri dati, in funzione della tutela della dignità e della vita privata,
contro ogni abuso delle informazioni personali, da chiunque tentato o commesso.
Dovrebbe essere questa tutela, almeno
all'apparenza, alla base della seconda questione di attualità: la previsione
legislativa di un divieto di divulgazione di immagini di persone comunque
private della libertà personale, che si accompagna al divieto, per la polizia
giudiziaria "di riferire pubblicamente sul contenuto degli atti compiuti e
sui provvedimenti adottati". Dal resoconto
della seduta della Commissione giustizia
del Senato non si capisce bene quale sia il testo approvato definitivamente tra
i diversi proposti, molto simili tra loro, ma sembra chiaro che la norma intende
vietare la pubblicazione di qualsiasi immagine di soggetti privati della
libertà personale; non solo quindi le umilianti fotografie dell'arrestato di
turno in manette, ma persino di foto di archivio nelle quali l'interessato può
apparire in situazioni del tutto normali.
La questione è complessa, perché al diritto
alla riservatezza si oppone il diritto-dovere di cronaca. Dunque è necessario
tracciare un confine tra i due diritti, perché non si può annullare la
dignità degli indagati con l'affermazione indiscriminata del "diritto di
sapere" del pubblico, ma la tutela della riservatezza e della dignità di
singole persone non può essere assunta come pretesto per limitare
l'informazione. Il discorso dovrebbe però limitarsi alla pubblicazione di
immagini che siano effettivamente o potenzialmente lesive della dignità
dell'interessato, non di qualsiasi immagine. Si deve ricordare che la legge
consente (fino a questo momento) la pubblicazione senza il consenso
dell'interessato quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla
notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di
polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione
è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in
pubblico (legge 633/41, articolo 97).
Sotto questo aspetto la norma approvata al Senato si risolve in una limitazione
assoluta e incondizionata della libertà di stampa, tanto che si potrebbe forse
sollevare una questione di legittimità costituzionale. Infatti, di fronte
all'esigenza di bilanciamento tra i due diritti (la dignità della persona,
articolo 2, e la libertà di stampa, articolo 21), si risolve la questione
annullando tout court il diritto sancito dall'articolo 21.
C'è un altro importante aspetto da mettere in
luce. La norma in questione, per la parte che riguarda la pubblicazione di
immagini di individui privati della libertà personale, incide su una materia
già regolata dalla legge 685/96. Infatti l'articolo
25 (che nell'attuale formulazione è il
risultato di una lunga e accanita discussione tra il Garante e l'Ordine dei
giornalisti) detta norme più che sufficienti ad assicurare il bilanciamento tra
diritto alla riservatezza e diritto di cronaca, affidando a un codice
di autoregolamentazione la definizione
del limite al diritto di cronaca e prevedendo sanzioni per chi lo viola. Il
codice non è perfetto, come ogni norma che è frutto di difficili compromessi,
ma comunque tutela il diritto alla riservatezza del singolo di fronte a
possibili esagerazioni dell'informazione. Anzi, proprio il fatto che
un'autorità indipendente abbia un potere di intervento, nei casi in cui i mezzi
di informazione siano accusati di esagerare nella diffusione di notizie
personali, costituisce una garanzia efficace. Tanto efficace da sollevare le
proteste dei giornalisti!
In conclusione, la legge sulla tutela dei dati
personali deve essere valorizzata per quello che è, vale a dire per i principi
che sancisce. E, nel tempo stesso, dovrebbe essere migliorata (e di molto!) per
quelli che sono i suoi difetti.
Alcuni di questi difetti sono messi in luce nei due articoli che pubblichiamo in
questo stesso numero, Il
trasferimento dei dati personali sull'internet
e Troppo semplificato
il consenso per i clienti delle banche.
Quest'ultimo articolo, in particolare, richiama un problema già tante volte
segnalato: il rispetto letterale delle disposizioni della 675/96 è praticamente
impossibile. Tanto che lo stesso Garante, nel lodevole tentativo di rendere
applicabile la legge , è costretto a "dimenticare" alcune
prescrizioni.
Si torna così sempre allo stesso punto: se
l'applicazione puntuale di una legge, opportuna e necessaria, comporta sempre
l'impossibile quadratura del cerchio, non sarebbe il caso di modificarla
profondamente?
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