Una bocciatura secca, quella pronunciata dal Consiglio di Stato con il parere
del 30 gennaio scorso sullo schema del decreto correttivo del "codice
dell'amministrazione digitale" (DLgv 7
marzo 2005, n. 82). Una serie di osservazioni che confermano per filo e per
segno le critiche rivolte su queste pagine sia al testo correttivo, sia a molti
passaggi del testo in vigore del codice, in particolare quelli che riguardano i
documenti informatici e le firme elettroniche.
Ricordiamo brevemente i passaggi più significativi del tormentato percorso
del provvedimento legislativo nato con la delega contenuta nell'articolo 10
della legge 29 luglio 2003, n. 229 (legge di semplificazione per il 2001 - sic!),
che dava al Governo l'incarico di emanare "uno o più decreti legislativi...
per il coordinamento e il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di
società dell'informazione".
L'intervento era necessario per due motivi principali: primo, per riunire in un corpus
coordinato e coerente una quantità di disposizioni contenute in provvedimenti
diversi;
secondo, per correggere i gravi errori commessi in materia di documento
informatico e firma digitale con le modifiche introdotte dal DLgv
10/01(attuazione della direttiva 1999/93/CE) nel testo unico sulla
documentazione amministrativa.
Ma diciotto mesi non bastavano al Dipartimento per l'innovazione e le
tecnologie per produrre un testo soddisfacente, tanto che il Consiglio di Stato,
nel parere del 7 febbraio
2005, suggeriva di rinviare l'entrata in vigore del decreto, anche per emanare
in tempo utile i decreti "integrativi e correttivi", previsti dalla
stessa legge delega, che avrebbero reso accettabile il testo fin dall'inizio.
Intanto forti critiche si levavano da ogni parte (e, in particolare, da questa
rivista) all'articolato emanato il 7 febbraio 2005. Da più parti giungevano proposte
di modifiche, formulate quasi all'unisono dai più qualificati esperti della
materia (pochissimi gli interventi "controcorrente"). Lo stesso
Dipartimento organizzava, il 17 ottobre, una riunione di specialisti per
raccogliere suggerimenti.
In quella sede emergeva una sostanziale concordanza di vedute su alcune
correzioni importanti, che avrebbero reso la normativa coerente con la realtà
della tecnologia, l'ordinamento nazionale e la direttiva comunitaria (vedi Gli "Stati generali" della firma digitale).
Ma l'11 novembre l'ufficio legislativo del ministro Stanca faceva circolare una bozza
di decreto che teneva conto solo di alcuni dei suggerimenti formulati
durante la riunione del 17 ottobre, e neanche dei più importanti. Sul documento
informatico, in particolare, le modifiche peggioravano ulteriormente il già
criticato testo di partenza (vedi Idee sempre più confuse
sulla firma digitale) e suscitavano nuovi interventi da parte di diversi
esperti.
Il 2 dicembre il Consiglio dei ministri approvava, in via preliminare, un nuovo
testo, che differiva solo per alcuni dettagli da quello dell'11 novembre.
Troppo tardi, comunque, per arrivare all'emanazione entro il 1. gennaio, secondo
il suggerimento del Consiglio di Stato. Sicché il codice dell'amministrazione
digitale è entrato in vigore con una serie di disposizioni errate, già
praticamente prive di effetto a causa delle modifiche annunciate.
Ma anche lo schema di decreto correttivo è stato stroncato dal Consiglio di Stato, nell'adunanza del 30
gennaio. Nel parere i giudici amministrativi esordiscono prendendo atto, fra
l'altro, che è stata recepita
la raccomandazione di inserire nel testo anche le disposizioni sul sistema
pubblico di connettività, nell'ottica dell'accorpamento in un singolo
provvedimento di tutte le disposizioni sulla materia. Ma, osservano...
"...medio tempore, sono intervenute altre disposizioni che, in qualche
caso, contraddicono il Codice. A titolo d'esempio, l'art. 1, comma 51, della
legge 23 dicembre 2005, n. 266, "Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato" (legge finanziaria 2006) si pone
in contrasto con il Codice nella parte in cui prevede che un concessionario di
pubblico servizio (postale) - e non un pubblico ufficiale - abbia la facoltà
di dematerializzare i documenti cartacei attestanti i pagamenti in conto
corrente. Tale disposizione pertanto, opportunamente modificata, va collocata
all'interno nel Codice, anche in ossequio al criterio della legge-delega
secondo cui vanno apportate, a fini di coordinamento, le modifiche necessarie
per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa in materia" (vedi Emendamenti
in libertà: se l'autista autentica...).
Tutto il parere del Consiglio di Stato merita una lettura attenta, ma qui
citiamo solo un paio di punti che riguardano la firma digitale:
"La direttiva comunitaria, in sostanza, impone agli Stati membri di equiparare
alla sottoscrizione autografa, quanto agli effetti probatori, una firma
elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato e generata con un
dispositivo sicuro e di non escludere la rilevanza giuridica di una firma
elettronica per il solo fatto che essa non può essere apposta su un documento
cartaceo.
La direttiva non prevede, dunque, che le firme elettroniche possano conferire al
documento informatico una efficacia probatoria maggiore di quella che assume,
nel processo, una scrittura privata munita di sottoscrizione autografa.
Il testo risultante dalle modifiche introdotte dal decreto integrativo -
invece - rafforza, particolarmente sotto il profilo probatorio, il valore
legale del documento informatico sottoscritto con firma digitale a scapito del
documento formato sul tradizionale supporto cartaceo.
Le norme del decreto legislativo (che sono soprattutto norme di recepimento,
nella specifica materia, delle disposizioni comunitarie) non sembrano recepire
correttamente il diritto comunitario nel diritto interno e, soprattutto,
sembrano alterare il sistema delle prove nel processo civile.
Com'è noto, nell'intento di non stravolgere il delicato equilibrio del
sistema delle prove documentali del processo civile, collaudato da secoli di
cultura giuridica, l'articolo 4 del d.P.R. n. 513 del 1997 attribuiva al
documento informatico, sottoscritto con firma digitale, "L'efficacia di
scrittura privata ai sensi dell'art. 2702 del codice civile",
semplicemente equiparando al documento scritto, sottoscritto con firma
autografa, il documento scritto su supporto informatico sottoscritto con firma
digitale.
In altri termini, come dalla sottoscrizione autografa si ricava la presunzione
di legge, sino a prova contraria, del consenso del firmatario sul contenuto del
documento, così dalla sottoscrizione del documento informatico, mediante la
firma digitale, l'ordinamento dovrebbe trarre le medesime presunzioni legali,
identificando nell'autore della firma digitale l'autore del documento
informatico a cui attribuire gli effetti dell'atto.
Nel testo del decreto correttivo, invece, la parità di condizioni è soltanto
apparente, poiché l'efficacia probatoria della scrittura informatica è
rafforzata dalla maggiore difficoltà del disconoscimento giudiziale della firma
(artt. 214 e ss. c.p.c.)
Sostenere che l'uso dello strumento di firma "si presume riconducibile al
titolare" e che soddisfa "comunque" il requisito della forma
scritta, anche nei casi previsti, sotto pena di nullità, dall'articolo 1350
c.c., equivale, in sostanza, ad introdurre nell'ordinamento una presunzione di
riconoscimento della provenienza del documento simile a quella prevista dall'art.
2703 c.c. per gli atti formati dal pubblico ufficiale (la firma, per così dire,
"si ha per riconosciuta" anche se essa non è stata apposta davanti
al pubblico ufficiale).
Pertanto, mentre colui contro il quale viene esibita in giudizio una falsa
scrittura cartacea può limitarsi a disconoscere la propria firma dando luogo
alla speciale procedura di verificazione prevista dagli artt. 214 e ss. c.p.c.
(nella quale è colui che intende utilizzare la scrittura che deve provarne la
autenticità), la parte processuale, contro la quale viene esibita in giudizio
una falsa scrittura formata su supporto informatico, oltre a disconoscere la
propria firma deve anche fornire le prove della sua falsità, con un'inversione
dell'onere probatorio che appare ingiustificato" [...]
Le disposizioni che il decreto legislativo intende modificare - peraltro -
devono, per non eccedere i limiti della delega legislativa (art. 76 Cost.)
limitarsi al recepimento nell'ordinamento interno della direttiva 1999/93/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, secondo i criteri indicati dall'articolo
2 della legge di delega n. 422 del 2000, e precisamente, osservando gli
specifici principi e criteri direttivi "stabiliti nella direttiva da
attuare", ed introducendo solo le modifiche o integrazioni necessarie per
evitare "disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori
interessati dalla normativa da attuare" (art. 2, lett. b).
E' ben vero che anche l'attuale testo dell'art. 21 prevede l'inversione
dell'onere della prova ai fini del disconoscimento della firma, ma imporre
soltanto al titolare dello strumento di firma (in questo senso, la modifica dell'espressione
"sia fornita la prova" con "dia la prova") significa rafforzare
ulteriormente, nel senso suindicato, la disparità di trattamento tra la
scrittura cartacea e la scrittura informatica.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere correlativamente modificata".
Ancora:
"All'art. 1, comma 1, lett. q) del Codice, che attualmente
recita: "firma elettronica: l'insieme dei dati in forma elettronica,
allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici,
utilizzati come metodo di autenticazione informatica", sono soppresse le
parole ", utilizzati come metodo di autenticazione informatica".
Con tale modifica presumibilmente l'Amministrazione ha inteso chiarire la
portata definitoria dell'espressione "firma elettronica",
espungendo il riferimento all'autenticazione, così come definita alla lettera
b), che, nel testo originario, finiva per collegare la nozione di
sottoscrizione elettronica all'operazione di riconoscimento di un soggetto
nella rete o in un sistema informativo.
Pur convenendo sull'opportunità di tale scissione semantica, e confermando
che non vi può essere alcun rapporto tra la sottoscrizione di un documento e l'accesso
ad un sistema informatico con relativa identificazione (in senso
tecnico-informatico) dell'utente del medesimo sistema, si rileva che, così
come è formulata, la definizione non individua alcun metodo di sottoscrizione
elettronica in senso stretto, dato che descrive unicamente una mera operazione
di associazione di dati ad altri dati (allegazione ovvero connessione).
Quanto detto va considerato alla luce del successivo art. 21, comma 1, secondo
cui il documento informatico sottoscritto con mera firma elettronica ha una sua
efficacia probatoria, sia pur limitata, la cui valutazione resta affidata al
giudice, in base alle caratteristiche di qualità e sicurezza della tecnologia
di volta in volta utilizzata per firmare elettronicamente".
E' opportuno richiamare l'attenzione su un passaggio: "non vi può essere alcun rapporto tra la sottoscrizione di un documento e l'accesso
ad un sistema informatico con relativa identificazione (in senso
tecnico-informatico) dell'utente del medesimo sistema". Cioè, in parole
povere, l'e-mail non può essere "forma scritta", come sostenevano con
forza alcuni avvocati (vedi Un messaggio e-mail non è "prova scritta").
E chi avesse la pazienza di spulciare tra i numerosi articoli che abbiamo
dedicato all'argomento, troverebbe che molte osservazioni del Consiglio di Stato
coincidono con le cose scritte su queste pagine da quando sono state rese note
le prime bozze del codice. Ma questo per noi non è un motivo di soddisfazione,
anzi, induce ad amare riflessioni su come nel Palazzo si tenga in nessun conto
l'opinione di chi, da anni, studia la materia (e in qualche caso ha anche
contribuito a crearla dal nulla).
Per concludere, ecco un altro punto sul quale i giudici di Palazzo Spada
confermano le opinioni espresse da InterLex: la carta d'identità elettronica e
le altre numerose carte elettroniche che dovrebbero inutilmente appesantire le
tasche dei cittadini italiani (vedi, da ultimo, Carta
vince, carta perde: chi vince nel gioco della CIE?). Ecco che cosa si legge
nel parere del Consiglio di Stato:
"Proprio sotto il profilo della reale attuazione delle norme, permane,
più in generale, la pressante esigenza di coordinamento del settore con
riferimento alle iniziative propedeutiche alla concreta accessibilità ai
servizi delle pubbliche amministrazioni.
Si pensi all'art. 64 del Codice (Modalità di accesso ai servizi erogati in
rete dalle pubbliche amministrazioni), secondo cui "La carta d'identità
elettronica e la carta nazionale dei servizi costituiscono strumenti per
l'accesso ai servizi erogati in rete dalle pubbliche amministrazioni per i quali
sia necessaria l'autenticazione informatica".
Infatti, da più parti sono stati evidenziati i costi e le difficoltà di
attuazione del progetto della Carta d'identità elettronica - che, come è
noto, investe anche competenze dei Comuni - nonché l'arduo discrimen
con la Carta nazionale dei servizi e, da ultimo, almeno per alcuni versi, con la
Tessera sanitaria.
Ciò senza contare che anche la regione Lombardia ha realizzato un progetto
denominato "Carta regionale di servizi"[...].
Appare quindi alla Sezione indispensabile e urgente un'azione chiarificatrice
e razionalizzatrice in materia, sia con riferimento alle inutili duplicazioni e
ai costi per l'Erario sia, soprattutto, per le incertezze che tale
frammentazione di iniziative suscita nei confronti dei cittadini e delle
imprese.
Un quadro organizzativo e normativo certo, chiaro ed univoco in materia appare
- con tutta evidenza - la conditio sine qua non per una reale
attuazione delle iniziative di e-government".
Ora resta solo da chiedersi se il Governo - o, per essere precisi, il Dipartimento
per l'innovazione - farà in tempo a varare un testo che tenga conto dei rilievi
del Consiglio di Stato prima della scadenza della delega (entro un anno
dall'emanazione del decreto legislativo, cioè entro il 7 marzo prossimo). O se
produrrà l'ennesimo pasticcio, oppure se il termine trascorrerà inutilmente. I
precedenti non inducono all'ottimismo.
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