Un uomo politico spia i suoi avversari anche con mezzi illeciti. La magistratura
indaga, scoppia lo scandalo e il politico deve dimettersi. Niente di nuovo,
anzi, la vicenda che ha travolto il ministro Storace ha un precedente illustre,
che risale a più di trent'anni fa, quando fu costretto alle dimissioni
nientedimeno che un presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.
Sarà interessante, quando i magistrati avranno tratto le conclusioni,
tracciare qualche paragone tra la vicenda americana e quella di oggi in Italia.
Ma una prima lezione si può trarre subito: è dimostrata, al di là di ogni
ragionevole dubbio, la sostanziale fragilità della normativa sulla protezione
dei dati personali. E non solo perché le norme sono state clamorosamente
violate, ma anche perché l'alternativa tra riservatezza e sicurezza, nei
termini in cui è stata posta dall'11 settembre 2001, si rivela un'arma a doppio
taglio (vedi La stessa libertà con
maggiori controlli? di Andrea Monti e Così si limita la libertà
dei cittadini, non dei terroristi). Fino alla non paradossale conclusione
che l'equazione "meno privacy è uguale a più sicurezza" è falsa: la
realtà si riassume come "meno privacy, meno sicurezza".
E' un concetto che ripetiamo da tanti anni: l'esistenza di una moltitudine di
banche dati con le più disparate informazioni su ogni cittadino è di per sé
una minaccia alla privacy. E parliamo soprattutto delle banche dati delle
pubbliche amministrazioni, giustificate e rese lecite da compiti istituzionali,
in particolare per quanto riguarda la sicurezza nazionale e l'ordine pubblico.
Siamo chiari: il Ministero dell'interno dispone di una massa di dati su ogni
cittadino tale da rendere possibile una "profilazione" di ogni
individuo fino ai particolari più riservati. E le misure di sicurezza
("minime" o massime che siano) sono del tutto inutili se con una
banale opera di corruzione si può ottenere illecitamente qualsiasi dato
presente in quegli archivi.
Si deve aggiungere che il controllo su quali dati siano effettivamente
raccolti e custoditi e su chi vi abbia accesso è praticamente impossibile. La
legge - ora il decreto legislativo 196/03
"Codice in materia di protezione dei dati personali" - detta norme
insufficienti a garantire un efficace sorveglianza sulle banche dati che
riguardano l'ordine pubblico e la sicurezza: un paravento dietro il quale può
succedere di tutto. Compreso l'uso di quei dati proprio per mettere a rischio
l'ordine pubblico e la sicurezza, oltre che per colpire avversari politici o
esercitare ricatti personali o economici, o discriminazioni basate sugli
orientamenti ideologici, lo stato di salute e via elencando.
Ne abbiamo parlato di recente a proposito della "legge Pisanu", che
impone a un numero altissimo di soggetti, anche non qualificati, l'obbligo di
raccogliere e conservare per lungo tempo una quantità impressionante di dati relativi alle
comunicazioni telematiche, che si aggiungono a quelli delle conversazioni telefoniche. Una massa di informazioni
incontrollabili, statisticamente poco efficaci per ottenere dati utili nella
lotta al terrorismo. Ma che restano là, a disposizione di hacker o insider
che sanno benissimo cosa e dove cercare per ottenere informazioni riservate
adatte a perseguire fini illeciti.
E' necessario un approccio diverso, più realistico, al problema della
protezione della vita privata. Servono norme più semplici, più chiare e soprattutto
applicabili: un esempio molto chiaro di come non dovrebbe essere la
normativa sui dati personali sono le disposizioni sulla videosorveglianza che,
se applicate con rigore, rendono l'attività impossibile o inutile. E se vengono
ignorate possono comportare effetti "collaterali" imprevedibili, anche
se non sempre dannosi (vedi l'articolo di Corrado Giustozzi, in questo numero, Videosorveglianza:
due pesi e due misure? e, risalendo nel tempo, Videosorveglianza,
la criminalità ringrazia e Videosorveglianza
all'obitorio: è "sproporzionata").
Ora, tra i primi effetti di quello che qualcuno ha chiamato "Laziogate"
(per evidente assonanza con lo storico Watergate), è una garbata lettera
del Garante alle procure della Repubblica di Milano e di Roma. L'autorità
chiede di essere informata sugli sviluppi delle indagini anche perché è "in procinto di adottare alcuni delicati provvedimenti in tema di
protezione dei dati nel settore delle comunicazioni e delle banche dati di
polizia".
Il problema è nel significato che si vuole dare all'aggettivo
"delicato", perché fino a oggi le norme in materia sono state fin
troppo "delicate". Occorrono invece provvedimenti forti, perché se è
a rischio la riservatezza di milioni di cittadini è a rischio anche la
sicurezza della collettività.
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