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 Firma digitale

Una catena di errori che parte da Bruxelles
di Manlio Cammarata - 10.07.03

Una notizia-notizia e una notizia mancata.
La notizia-notizia è che la "autentificazione" inserita nelle nuove definizioni dell'art. 1 del DPR 445/00 era un errore. La Gazzetta ufficiale del 3 luglio porta un errata corrige: leggasi "autenticazione"...  In più i "sistemi informativi autorizzati" della lettera q) sono in realtà "automatizzati". A quest'altro errore nessuno aveva fatto caso, nelle discussioni su altri e più preoccupanti aspetti delle nuove norme sulle firme elettroniche.

La notizia mancata è quella dell'emanazione del DPCM con le nuove regole tecniche. Il novellato testo unico è in vigore da tre giorni, ma le regole sono sempre quelle che risalgono al vetusto DPCM 8 febbraio 1999 e in diversi punti sembrano in conflitto con le nuove disposizioni conseguenti all'attuazione della direttiva europea.
Intanto aumenta l'interesse per la materia. Le statistiche di InterLex mostrano un record di accessi per le pagine che abbiamo dedicato alla firma digitale nelle ultime settimane. SI moltiplicano le e-mail con richieste di chiarimenti. Eccone una particolarmente significativa:

Mi sto occupando della gestione dei flussi documentale di una ASL di *****. Vorrei capire in parole semplici:
1) il significato dell'espressione citata dell'art. 1 lettera cc) del novellato DPR 445/2000: " ....l'insieme dei dati in forma elettronica allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici utilizzati come mezzo di autentificazione informatica".
2) I concetti relativi all'efficacia probatoria dei documenti cartacei, della forma scritta e della firma autografa erano ben definiti. Con i nuovi strumenti faccio difficoltà ad orientarmi. Chiederei se possibile un prospetto di equiparazione tra vecchio (documenti cartacei) e nuovo (documenti informatici)
3) La modifica al DPR 445/2000 ha introdotto diversi concetti di firma: firma elettronica, digitale avanzata, qualificata, sicura. Quali sono in parole povere le differenze?

La risposta, in parole semplici, in parole povere, è che non ci si capisce più nulla. Ne sono prova i numerosi interventi che abbiamo pubblicato e continuiamo a  pubblicare (un elenco è alla fine della pagina). Al di là delle differenti posizioni degli autori, appare evidente un'opinione comune: "Gli è tutto da rifare", come diceva il grande Bartali.  La citazione non è casuale , perché i legislatori comunitario e nazionale devono mettersi a pedalare di buona lena, se vogliono veramente la rapida diffusione dei nuovi strumenti di validazione dei documenti e delle transazioni informatiche.
Sembra infatti che almeno a Bruxelles qualcuno incominci a rendersi conto dei pasticci creati con la direttiva 1999/93/CE e stia pensando di mettere mano a una non marginale revisione.

Ma qual è il problema di fondo? Ecco, trascurando i dettagli, le linee essenziali.

La normativa italiana impostata fin dal 1996 (e sancita con l'art. 15 della L. 59/97, con il DPR 513 dello stesso anno e con le regole tecniche del '99) presentava un'impostazione giuridicamente impeccabile: il problema era di assicurare la rilevanza ed efficacia dei documenti informatici a tutti gli effetti di legge; la soluzione fu trovata nello strumento tecnologico della  firma digitale basata sulla crittografia a chiave pubblica. Il rispetto di determinati requisiti (certificazione, dispositivo di firma ecc.) consentiva l'equiparazione della firma digitale alla firma autografa. Tutto qui.
Gli altri "livelli" della firma digitale (o, meglio, gli altri sistemi di validazione e riconoscimento a distanza) non furono presi in considerazione, per il semplice motivo che nulla ne vietava l'uso o ne consigliava una particolare regolamentazione: infatti erano (e sono, e saranno negli anni a venire) impiegati da sempre in ambito privato, con piena soddisfazione degli utenti.

L' impostazione del legislatore italiano era fondata sul concetto che l'emanazione di qualsiasi regola giuridica deve seguire i principi del diritto, assumendo la tecnologia come strumento. Ai tecnologi spetta il compito (essenziale) di stabilire le regole tecniche, ma le leggi devono essere scritte dai giuristi. Si veda, su questo punto, l'intervento di E. Maccarone La supremazia del diritto sulla tecnologia: L'importanza delle tecnologie - scriveva Maccarone pochi mesi fa - è fondamentale ed innegabile, ma nessuna società può fondare su di esse la propria esistenza: le regole deve darle il diritto, cioè quella mistura di saggezza, moralità, compromesso, conoscenza, equità, disumana umanità ed esperienza sulle quali si fonda ogni società. Se ciò è vero, allora ben venga il contributo delle scienze e della tecnologia, ma non pretendano esse di impossessarsi delle nostre regole di convivenza civile, del diritto.

Ebbene, con la direttiva del '99 l'Unione europea ha fatto esattamente il contrario. Ha preso una tecnologia, quella della firma digitale basata sulla crittografia a chiave pubblica, e su essa ha tentato di costruire un sistema giuridico. Siccome questa tecnologia offre diversi livelli di "certezza", a seconda di come viene utilizzata, il legislatore europeo si è ingegnato a correlare questi livelli tecnici a diversi gradi di efficacia giuridica, piegando il diritto alle sfumature della tecnologia. Poi, per dare al tutto un'aura di imparzialità e neutralità, ha sostituito l'aggettivo "digitale" con il più generico "elettronico" (vedi Firme digitali e... analogie elettroniche di C. Giustozzi).

Infine ha scopiazzato confusamente le regole tecniche italiane sui requisiti della firma digitale equivalente alla firma autografa e le ha poste come "allegati". Ma si è dimenticato, o non ha avuto il tempo, di rivedere l'intero testo per coordinare definizioni e disposizioni.
Partendo da siffatto pasticcio, il legislatore italiano si è inevitabilmente trovato in difficoltà. Ma tra diverse possibili soluzioni ha scelto la peggiore. Avrebbe potuto operare un vero "recepimento", modificando le poche disposizioni del nostro ordinamento non coerenti con le indicazioni comunitarie; invece ha "copiato" un testo di per sé confuso; poi ha cercato di adattare le norme esistenti a quelle pedissequamente riprodotte, aumentando la confusione.

Si deve considerare il fatto che la stessa traduzione in italiano del testo della direttiva è concettualmente errata in diversi punti. A parte il già più volte rilevato errore nella trasposizione del termine authentication nell'italiano "autenticazione", la stessa traduzione del termine digital signature con "firma elettronica" è inesatta e fuorviante. Perché in inglese signature non vuol dire soltanto "firma", ma anche "segno", "vidimazione" e "marchio", fino alla "sigla musicale". Nel linguaggio degli esperti di virus informatici significa anche "impronta".

Da qui possiamo arrivare al nocciolo del problema, all'equivoco di fondo: quando in inglese si parla di digital (o electronic signature, non ci si riferisce solo al concetto di "firma" come è presente nell'ordinamento italiano, dove è sostanzialmente sinonimo di "sottoscrizione autografa" tracciata da una persona fisica. L'espressione signature vale anche per una serie di altri strumenti, fra i quali rientrano, per esempio, molti protocolli di sicurezza delle transazioni telematiche. Dove a "firmare" non sono gli uomini, ma le macchine, e quindi la qualificazione giuridica di "firma" non è appropriata per il nostro ordinamento.

Dunque il concetto che dovrà essere tenuto presente nell'indispensabile revisione della normativa è questo: una cosa è la firma digitale, come sostituto della firma autografa, un'altra i vari sistemi di validazione e riconoscimento informatico. Si deve eliminare l'errore fondamentale della direttiva, quello di aver unito in una sola previsione normativa due fenomeni giuridicamente differenti, sulla base della loro derivazione dallo stesso principio tecnologico. Errore che si è trasmesso a catena, fino al refuso della "autentificazione". Che ha generato persino disdicevoli motti di spirito.